La guerra mossa dalla Federazione Russa all’Ucraina con la sua scia inaudita di ferocia, massacri, distruzioni ha messo inaspettatamente l’Occidente di fronte ad un contesto nel quale convinzioni, certezze, giudizi consolidati sono gradualmente andate in pezzi. Il convincimento, per esempio, che una condotta militare sfacciatamente finalizzata a sterminare e terrorizzare ormai non potesse più essere realizzata in Europa: e invece, nonostante la fine della guerra fredda e le aspettative buoniste e le pulsioni ecumeniche che ci hanno fatto pensare negli ultimi trent’anni che il mondo si sarebbe naturaliter evoluto verso una crescita contestuale del benessere economico e delle libertà politiche, ci siamo trovati all’improvviso a dover riconoscere che non è così. E non solo che non è ancora così, ma che questa crescita simultanea di benessere e democrazia si è realizzata in una percentuale assai piccola rispetto a quella di paesi che hanno agganciato perfettamente le opportunità economiche offerte dalla globalizzazione ma non (per scelta, ovviamente, non per errore) quelle attinenti alla democrazia e alle libertà.
Gran parte dell’intelligencija occidentale ha passato gli ultimi trent’anni a battersi il petto proprio a causa della globalizzazione, vista come il proseguimento del dominio coloniale, senza vedere (del resto per buona parte dell’intelligentsija occidentale la realtà è un inganno da decodificare alla luce della coscienza critica di cui l’intellettuale è appunto interprete: Sartre spiegò che fortuna fosse Stalin per l’umanità, nonostante le apparenze) che essa creava un nuovo ordine economico mondiale, in cui non valeva la predazione delle risorse da parte del più forte, ma la creazione di catene del valore nelle quali i rapporti tra i diversi livelli sono determinati dalla legge della domanda e dell’offerta, e non dalla forza politica e militare.
Ma ovviamente questa strada non è obbligatoria: può esserci qualche soggetto di grande stazza storica, culturale ed economica che può pensarla diversamente, e addirittura teorizzare che entrare nelle catene del valore portandosi dietro l’efficienza e il peso differenziale di un’economia in cui i soggetti economici fanno ciò che viene loro ordinato (naturalmente in vista di un superiore bene comune, o della patria, o del proletariato) è un fattore di crescita. Il che impone, non per cattiveria (per carità…) di non poter accompagnare la crescita economica con quella democratica.
Tutta questa ben nota (ma diplomaticamente occultata) realtà si è manifestata in un tripudio di effetti speciali appunto grazie (!?!) allo stupro russo dell’Ucraina: un pezzo intero di intelligencjia è andata in corto circuito, e ha denunciato come la responsabilità dello stupro sia da attribuire, ohibò, all’Occidente, che tramite il suo strumento militare (la NATO) ha minacciato la pacifica Russia. La virile iniziativa della Russia ha tuttavia dimostrato come sul pianeta vi possano essere punti di riferimento politici e culturali diversi da quelli dell’Occidente, e un ordine politico internazionale alternativo a quello fondato sulle democrazie liberali. Qualcuno ritiene che sia auspicabile un Pianeta multipolare, nel quale al tradizionale liberalismo politico ed economico dell’Occidente si affianchino (o si oppongano?) altri sistemi, basati su valori “differenti”; posizione questa molto gettonata da gran parte dell’intelligencija italiana che non si schiera con la Russia ma nemmeno la condanna, piange per l’Ucraina ma rifiuta di aiutarla, vorrebbe che il mondo fosse in pace ma attribuisce alle democrazie liberali la responsabilità che questo Eden non si realizzi. Interessante notare come questa corrente di pensiero rovesci la nozione di relativismo: concetto nato in opposizione ai totalitarismi ideologici, per affermare che non esistono verità rivelate e per difendere la libertà di pensiero e di ricerca scientifica, e che qui viene ribaltato in una indifferenza nella quale qualunque dottrina ha pari diritti e dignità con tutte le altre. Una versione più colta dell’uno vale uno del Prof. Grillo, ma che esclude un approccio scientifico induttivo alle diverse dottrine capace di renderne le caratteristiche giudicabili in relazione ai loro effetti sulla realtà storica, politica ed economica.
Se si dice che la Russia, l’Afghanistan e l’Iran vanno accettati così come sono, e che hanno il loro diritto ad essere come gli pare, non si sancisce una pluralista e gioconda ecumene: si rifiuta di fare un esame di realtà e ci si rifugia in un mondo trascendente dove esistono le idee e non le persone e i fatti.
Una facile osservazione delle realtà evidenti consente infatti a chiunque di constatare che vivere in un paese occidentale è ben diverso da vivere in Russia o in Iran, a meno che non si sia un oligarca (e anche in questo caso mica sempre) o un mullah; e non soltanto per le condizioni materiali di vita, che pure sono sensibilmente superiori per quasi tutti i cittadini delle democrazie liberali, ma soprattutto per i diritti umani e le libertà politiche..
Dice: ma messo così non parliamo di conflitti per questioni specifiche, economiche o territoriali! Esatto: quel che stiamo vivendo è uno scontro di culture. Pacifisti, relativisti, buonisti non lo ammetteranno mai, ma questo è. La posta in gioco in Ucraina non è la Crimea o il Dombass, ma il fatto che l’Ucraina diventi o no una democrazia liberale. Lo stesso vale per Taiwan, le Repubbliche Baltiche. Ma in uno scontro di civiltà è possibile individuare il torto e la ragione? Sì: il way of life è indagabile nei suoi risultati tramite una non troppo difficile procedura di customer’s satisfaction. Che come tutti i procedimenti di tipo statistico fornisce risultati “medi”, che non risolvono singole contraddizioni ma le riconducono ad un parametro che le incorpora all’interno di un dato bilanciato. Non voglio banalizzare, ma se, procedendo per metodo induttivo, prendiamo il coreano “medio” e gli chiediamo se preferisce essere cittadino del Sud o del Nord nessun bookmaker accetterebbe la scommessa. E questo criterio, cioè la qualità della vita umana nei suoi diversi aspetti, nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, è l’unico criterio “oggettivo” che può permettere di esprimere un giudizio su una cultura, una civiltà, un sistema politico. E che ci consente di affermare che le culture, le civiltà, le organizzazioni sociali non sono equivalenti; il che non significa ovviamente non riconoscere o combattere le civiltà diverse, ma ammettere che, per quanto possibile, va difeso e sostenuto il diritto di una comunità a fruire di un sistema sociale, politico ed economico che garantisca la democrazia politica, le libertà civili e il libero mercato.
Questa è la chiave di lettura della guerra in Ucraina. E infatti l’inerzia delle relazioni internazionali sta determinando aggregazioni piuttosto chiare in funzione della scelta dell’Ucraina di essere una democrazia liberale. E proprio per questo la posta in gioco assume caratteristiche non negoziabili. Se posso proporre un neologismo, più che di uno scontro TRA civiltà si tratta di uno scontro SULLA civiltà. Così eliminiamo ogni malinteso relativista. E credo che sia impossibile per chiunque condivida le aspirazioni degli Ucraini chiamarsene fuori.
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