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Guerra in Ucraina: a che punto siamo?

La guerra si è cronicizzata. Vittime civili e militari cadranno sempre più numerose sui molteplici fronti di battaglia. La situazione è giunta a un punto tale che nessuno può più fare un passo indietro, pena il rischio di rovesciamenti interni incontrollabili

18 Gennaio 2023 da Daniela Belliti Lascia un commento

A quasi un anno dall’invasione della Russia, la guerra in Ucraina sta proseguendo lungo in un tunnel di cui non si vede l’uscita. Tutte le ipotesi di negoziato, compresi i tentativi intrapresi dalla Turchia, si sono incagliate davanti all’irrigidimento delle posizioni, condizionate dall’evoluzione militare e ormai molto lontane dai contenuti degli accordi di Minsk. Solo l’accordo sul grano – raggiunto su un testo mediato da Turchia e ONU e firmato separatamente dalle due parti in conflitto – sopravvive, pur tra molti problemi e minacce di chiusura da parte della Russia, come è successo a fine ottobre dopo gli attacchi ucraini a Sebastopoli.

Alcuni eventi, poi, se da una parte hanno dimostrato quanto nessuno degli attori voglia provocare lo scoppio di una terza guerra mondiale, confinando il conflitto dentro il limes russo-ucraino, dall’altra parte hanno contribuito alla sua cronicizzazione.

Questi eventi vanno ricordati, perché rappresentano passaggi cruciali di questa fase della guerra, equilibrata sul campo, inerziale per durata, ma sempre più catastrofica per vittime e distruzione.

Il 26 settembre i gasdotti Nord Stream 1 e 2 hanno subito perdite nel tratto del Mar Baltico verso Svezia e Danimarca. Nessuno dei due gasdotti stava pompando gas verso l’Europa, a causa delle sanzioni decise dall’Unione europea contro la Russia, ma l’allarme per l’ambiente e per la navigazione è scattato, assieme alla richiesta di accertamenti urgenti da parte sia della Russia sia dei due paesi europei interessati. Le indagini del sistema satellitare Spaceknow, raccolte in un rapporto all’esame della NATO, confermerebbero l’ipotesi del sabotaggio, ma nessun elemento è uscito circa le responsabilità; fonti NATO riportate dal Washington Post ribadiscono che non ci sono prove di coinvolgimento della Russia, ma non si fa cenno ad altri attori statali.

Il 15 novembre un missile di fabbricazione russa è caduto su un dispositivo per l’essiccazione di grano a  Przewodów, in territorio polacco, uccidendo due persone. La prima notizia, diffusa dall’Associated Press e rimbalzata in tempo reale sulle agenzie di tutto il mondo, attribuiva alla Russia l’attacco, accreditando l’idea che fosse accaduto quel che si temeva dall’inizio del conflitto, ovvero che questo potesse sconfinare nel territorio di un paese NATO. Di questa eventualità, peraltro, la Polonia aveva iniziato a discutere con gli USA fin dall’inizio della guerra, per concordare le modalità di gestione e di risposta. In pochi minuti, alcuni leader politici poco avvertiti – in Italia, ma non solo – intervennero sui social media per invocare gli accordi di reciproca difesa tra paesi NATO in solidarietà con la Polonia. Ma il giorno successivo la notizia originale fu rimossa e sostituita con la seguente: «i missili erano di fabbricazione russa e più probabilmente lanciati dall’Ucraina per difendersi da un attacco russo». Le stesse parole furono pronunciate dal Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg davanti ai giornalisti, mentre il presidente USA Joe Biden aveva dichiarato di ritenere “improbabile” che il missile fosse stato sparato dalla Russia. E la Russia, declinando ogni responsabilità, ringraziava gli Stati Uniti per la loro “reazione misurata”.

Perché questi eventi sono indicatori dell’attuale fase della guerra? Entrambi hanno sfiorato il rischio di esplosione mondiale del conflitto, fermata giusto in tempo da una gestione delle rispettive comunicazioni finalizzata ad abbassare la tensione e a ricondurre gli effetti solo sul campo di guerra. E’ realistico pensare che almeno in queste circostanze – ma forse non solo – USA e Russia abbiano avuto relazioni di vario tipo e a vari livelli – politico, diplomatico, di intelligence – utili a non far deflagrare una situazione estremamente delicata e difficile. Inoltre, è proprio dal superamento di queste crisi che lo spauracchio dell’uso delle armi nucleari non viene più agitato.

Ma se un esile filo di comunicazione tra USA e URSS è stato fin qui funzionale a scongiurare il conflitto mondiale, questo non significa che la guerra in Ucraina debba andare avanti così e che dall’emozione iniziale i popoli europei debbano passare alla rassegnazione e all’assuefazione. E’ come se vivessimo in una contraddizione insolubile: da una parte la guerra è stata circoscritta, dall’altra parte la guerra non ha fine, ed è come se la prima parte dell’enunciazione fosse la condizione dell’altra.

Chi ha manifestato il 5 novembre a Roma, non può non sentire un senso di impotenza e il peso del fallimento di una mobilitazione che aveva portato in piazza più di centomila persone. Chi vuole davvero la pace, non può accontentarsi della “localizzazione” del conflitto armato, ma deve lavorare a un’alternativa all’uso della forza per ristabilire la giustizia e il diritto internazionale.

Cosa fare, dunque?

In primo luogo, bisogna cambiare una certa narrazione che rappresenta la guerra in Ucraina come guerra per procura. “Bisogna sostenere gli ucraini perché combattono la guerra che noi non possiamo combattere”. Si tratta di un’affermazione pericolosa e inquietante, perché ha come sottotesto il fatto che la Russia sarebbe il nostro nemico – ricatapultandoci in piena Guerra Fredda – ma non possiamo scendere sul terreno della guerra guerreggiata a causa del rischio nucleare. Bisognerebbe invece guardare alla Russia non come a un nemico, ma come a uno Stato che ha violato le norme internazionali.

In secondo luogo, e conseguente al primo, occorre uscire dalla logica della Guerra Fredda, cioè dall’idea che l’ordine internazionale sia possibile soltanto con l’equilibrio tra potenze nucleari e che l’arma atomica sia l’unico antidoto alla guerra mondiale. E’ una tesi che non fa i conti con la letteratura politica, filosofica e militare, prodotta durante l’equilibrio del terrore (sarebbe bene tornare a leggerla con molta attenzione) e che è indimostrata, teoricamente e storicamente. La guerra non c’è stata perché uno dei due contendenti – l’URSS di Gorbaciov – ha deciso che tutto quell’apparato militare era diventato insostenibile e ha rotto l’equilibrio non usando la bomba, ma cominciando a smantellarla. Nessuno può garantire che una nuova Guerra Fredda, magari con altri attori, come USA e Cina, sia ordinata e si concluda allo stesso modo della precedente.

In terzo luogo, dovremmo cominciare ad articolare qualche punto di caduta possibile, e non limitarci a dichiarare sostegno incondizionato all’Ucraina. L’aiuto dovrebbe consistere anche in una interlocuzione con il governo di Zelensky che cominci col riprendere in mano gli accordi di Minsk e richiami il Memorandum OSCE del 1994: neutralità dell’Ucraina, compatibile con l’ingresso nell’Unione europea, ritiro della Russia dalle zone invase e impegno – siglato in sede di conferenza internazionale di pace – a non altro pretendere e tanto meno attaccare il paese di Kiev. Insomma, occorre lavorare a un nuovo equilibrio dell’area, e a questo dovrebbe lavorare prima di tutto l’Europa, che di questo conflitto sta pagando le più pesanti conseguenze politiche, economiche, ambientali.

Tutto questo sembra un pio desiderio.

In questi giorni il Parlamento italiano ha approvato a larghissima maggioranza il Decreto Ucraina che prevede nuovi invii di armi fino alla fine del 2023 (ricordo che l’Italia è l’unico paese che ha posto il segreto sulla quantità e la tipologia delle armi destinate a Kiev), e susciterebbe una qualche ilarità, se la situazione non fosse drammatica, la richiesta avanzata da alcuni intervenuti nel dibattito di impegnare il Governo a lavorare per il cessate il fuoco, il negoziato e la soluzione del conflitto (come a giustificare il voto favorevole al decreto). Appena due giorni prima l’Unione europea e la NATO hanno sottoscritto un accordo per l’intensificazione dell’aiuto militare che sarà, per usare le parole di Stoltenberg, “a lungo termine”.

Adesso nessuno più parla di negoziato. La guerra si è cronicizzata. Vittime civili e militari cadranno sempre più numerose sui molteplici fronti di battaglia. La situazione è giunta a un punto tale che nessuno può più fare un passo indietro, pena il rischio di rovesciamenti interni incontrollabili: Putin, dopo la follia dell’invasione, ha tentato anche un goffo e primitivo colpo di mano sul Donbass; Zelensky, forte di aiuti imponenti, punta anche sulla Crimea. Intorno, i timori comprensibili di Polonia, Svezia e Finlandia stanno armando l’intero continente in una specie di guerra metaforica preventiva. Francia e Germania, componenti dell’ex Quartetto Normandia che doveva presiedere al rispetto degli accordi di Minsk, hanno tentato invano di evitare il conflitto e ora, pur continuando ad alimentare una dialettica dentro la NATO, non hanno strumenti per riaprire un dialogo. La Turchia, forte dell’accordo sul grano, sembra essersi adagiata perché alla fine la sua centralità l’ha già conquistata. Gli Stati Uniti tengono a bada gli eccessi ucraini, ma anche quelli russi, e non possono ora interrompere gli aiuti, perché gli effetti sarebbero anche per loro imprevedibili.

Abbiamo fin qui parlato di governi e di presidenti, di NATO e di diplomazie. La grande assente è la dimensione politica pura, quella dei partiti che un tempo erano attori della politica estera e che ora non si muovono più in autonomia dai rispettivi governi nazionali. Penso all’azione politica distensiva che in piena Guerra Fredda avevano dispiegato forze diverse della sinistra europea, dal PCI di Berlinguer alla SPD di Brandt; penso “allo spirito di Helsinki” con il quale le famiglie europee popolare e socialdemocratica guidarono il post Guerra Fredda; penso al fronte progressista transatlantico che fino agli inizi del nuovo millennio si riuniva e cercava di orientare i cambiamenti globali. Non che siano state fasi di sola pace e prosperità, ma c’era perlomeno il tentativo di dialogo tra diversi e di rispetto reciproco. Ora non è la politica occidentale che orienta le azioni della NATO, ma è la NATO che istruisce i dossier della politica estera.

Se non subentra un fatto nuovo, puramente politico, aperto e coraggioso, che rompe la ferrea logica militare, con questa guerra dovremo convivere molto a lungo. Sperando che sia sempre governabile l’incidente e che la Russia non decida la distruzione totale. Ipoteche molto pesanti da sopportare.

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Archiviato in:Esteri

Info Daniela Belliti

è ricercatrice di filosofia politica e sociale presso l’Università di Milano-Bicocca. E’ stata segretaria provinciale del PDS e poi del PD di Pistoia, consigliera regionale e vice-sindaca di Pistoia. Attualmente presiede l’Associazione politico-culturale Palomar.

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