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Solo Riformisti

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La ripresa della domanda aggregata, per effetto prima della spesa pubblica e poi della ripresa dei consumi e degli investimenti, ha fatto riaffiorare il fenomeno della crescita dei prezzi. L’inflazione è il segnale più immediato di una carenza dell’offerta, derivante dai vincoli dal lato degli input produttivi durante l’uscita dalla recessione.

Il fiume carsico dell’inflazione

La ripresa della domanda aggregata, per effetto prima della spesa pubblica e poi della ripresa dei consumi e degli investimenti, ha fatto riaffiorare il fenomeno della crescita dei prezzi. L’inflazione è il segnale più immediato di una carenza dell’offerta, derivante dai vincoli dal lato degli input produttivi durante l’uscita dalla recessione.

9 Novembre 2021 da Alessandro Petretto Lascia un commento

  1. Dalla deflazione all’inflazione

L’inflazione l’avevamo dimenticata, anzi ci avevano detto di dimenticarla, perché il problema era la deflazione: la riduzione del livello generale dei prezzi in fase di recessione dovuta ad insufficienza della domanda aggregata, il tipico equilibrio di sottoccupazione keynesiana dei manuali di macroeconomia. La situazione, indotta dalle due crisi (finanziaria e pandemica) era tanto allarmante quanto inusuale, perché mai verificatesi dopo la grande crisi del 29. La capacità delle banche centrali, segnatamente FED e BCE, di cogliere l’allarme e di praticare una politica monetaria accomodante, inondando di liquidità i mercati finanziari, ha impedito che la situazione da curiosa diventasse drammatica.

La ripresa della domanda aggregata, per effetto prima della spesa pubblica e poi della ripresa dei consumi e degli investimenti, ha fatto riaffiorare il fenomeno della crescita dei prezzi. Per chi crede nell’economia come una realtà caratterizzata dalla scarsità delle risorse, l’inflazione è il segnale più immediato di una carenza dell’offerta, derivante dai vincoli dal lato degli input produttivi durante l’uscita dalla recessione.

In Italia l’impennata dei prezzi è cominciata alla fine del 2020 e continua tuttora. L’indice dei prezzi al consumo in settembre registra in termini tendenziali un’accelerazione al 2,5%. Sulla dinamica dei prezzi incide largamente il rincaro dei beni energetici (+20,2 % tendenziale), dei prodotti alimentari (+1%), dei trasporti (+7%), e dei servizi recettivi e della ristorazione (+2,7%). L’aumento dei prezzi riduce il poter d’acquisto delle famiglie e tende a reprimere i consumi se l’aumento non è compensato da un aumento dei salari monetari, situazione per il momento in stand-by.

  1. Inflazione effettiva e attesa

In effetti ciò che più influenza la situazione non è tanto l’inflazione effettiva quanto quella attesa che dipende dai salari attesi. Un aumento dell’inflazione attesa induce le banche centrali a limitare l’offerta di moneta e quindi ad un amento del tassi di interesse, con conseguente controllo della domanda di consumo e investimento. Però fino a tutto l’anno scorso e quello attuale il comportamento delle banche centrali è stato diretto ad ancorare le aspettative. Si sono susseguite le dichiarazioni che, poiché l’inflazione era solo momentanea, FED e BCE non avrebbero rallentato l’acquisto dei titoli dei debiti sovrani se in un misura limitata e molto graduale, lasciando ancora per lungo tempo i tassi di interesse monetari prossimi allo zero. Il ragionamento si basava sull’assunto che il massiccio incremento degli investimenti pubblici e privati indotto dalle politiche fiscali espansive avrebbe adeguato la capacità produttiva e la produttività all’aumento della domanda aggregata, limitando le tensioni sui mercati dei beni e del lavoro.

Gli operatori finanziari fino ad ora hanno creduto a questo impegno per cui né i titoli azionari né i rendimenti dei titoli a reddito fisso hanno registrato instabilità rilevanti. Ma tutto lascia intendere che l’”incoerenza temporale” di questo commitment ponga fine a questa fiducia: la politica monetaria espansiva ha i mesi contati. Da qui la pressione degli investitori, dotati di aspettative razionali, sui titoli sovrani dei pasi più indebitati come l’Italia, con conseguente aumento dello spread.

  1. Inflazione e debito pubblico

L’aumento del livello generale dei prezzi ha un effetto positivo sulla dinamica del debito su PIL quando il tasso di interesse è inferiore al tasso di crescita dell’economia, come in questa fase post-pandemica. In primo luogo, il PIL nominale aumentando riduce la frazione Debito/PIL; in secondo luogo, la spesa per interessi sul debito su PIL diminuisce, con i tassi bassi, riducendo il deficit nominale. Tuttavia, l’aumento dello spread comprime questo secondo effetto e può ribaltare il risultato aumentando il deficit nominale.

In linea generale, non è mai salutare confidare nell’inflazione per ridurre lo stock di debito. L’operazione riuscì a Luigi Einaudi nell’immediato dopoguerra quando l’inflazione era a due cifre e  l’economia reale in recupero con la ripresa delle attività produttive. I capitali finanziari erano immobili, la lira svalutata e la politica monetaria, allora indipendente dal Tesoro, riusciva a tenere strumentalmente bassi i tassi di interesse. Nell’Unione monetaria Europea questo scenario non è, fortunatamente direi, riproducibile. Il dopo NextGenEu, se tutto andrà bene, prevede inflazione media al 2%, tasso di crescita reale al 3% circa e avanzi primari moderatamente positivi per accompagnare con una politica fiscale prudente la discesa dello stock del debito. Ci vuole pazienza, capacità realizzativa degli interventi, riforme strutturali, pressione fiscale contenuta e spesa pubblica efficiente. Non sarà facile ma lo dobbiamo ai giovani come dice enfaticamente il Presidente del Consiglio.

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Info Alessandro Petretto

Professore emerito dell’Università degli studi di Firenze. Insegna Politica economica alla Scuola di economia e management di Firenze. E’ stato presidente della Commissione tecnica per la spesa pubblica del Tesoro e presidente della Società italiana di economia pubblica. E’ membro del Comitato scientifico dell’Ufficio Parlamentare del Bilancio.

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