Non credo che sia mai esistito un tempo in cui la “navicula Petri” abbia solcato acque tranquille. Dalle origini del Cristianesimo fino a quando la Chiesa di Roma si impose a tutte le Chiese latine come centro di comando centralizzato attorno a Ildebrando da Soana, eletto il 22 aprile 1073 come Gregorio Gregorio VII, mai vi fu requie.
E neppure dopo, da quando il primo dei 27 Assiomi del “Dictatus Papae” del 1075 affermò “Quod Romana ecclesia a solo Domino sit fundata” (Che la Chiesa romana è stata fondata solo da Dio) e il nono: “Quod solius pape (così nell’originale!) pedes omnes principes deosculentur” (Che solo i piedi del Papa siano baciati da tutti i Principi).
La storia della Chiesa testimonia che il verificarsi di questo caso è stato piuttosto raro. Semmai, è il Papa che bacia i piedi altrui, non propriamente principeschi, il Giovedì Santo.
Nessuna meraviglia, dunque, che anche la Chiesa di Papa Francesco sia attraversata da conflitti, contestazioni, lotte di potere feroci e che il Papa ne sia l’obbiettivo. Le qualifiche più virali riservate al Papa? Comunista, globalista, populista, peronista, rivoluzionario, conservatore, eretico, antipapa, gesuita, qui inteso come insulto… E ancora: incerto, decisionista, chiacchierone, ambiguo, centralista… I vaticanisti, dediti all’anatomia quotidiana della Chiesa, non sanno più cosa pensare. Il che non li scoraggia dallo scrivere, anzi! Alla fine, ne esce un Papa Francesco “enigma”, secondo Massimo Franco, editorialista del Corriere della Sera, o “doppio”, secondo Marco Marzano, docente all’Università di Bergamo, su “Domani”…
Per capire la profondità del dramma di Francesco e della sua Chiesa, è meglio alzare lo sguardo sul mondo presente. Non ci si può limitare a guardare attraverso il buco della serratura vaticana. Alla fine, la scelta del punto panoramico dipende dal grado di coinvolgimento storico-esistenziale dell’osservatore nel dramma medesimo.
La tendenza storica, che si sta dispiegando sotto i nostri occhi, è che l’Europa si sta congedando dal Cristianesimo: le chiese sono sempre più vuote, i seminari chiudono i battenti, nei confessionali non si raccontano più i “peccati”.
Come sottolinea Pierre Manent, professore di Filosofia politica presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi: “Gli Europei non sanno cosa pensare né che fare del Cristianesimo”.
Il Cristianesimo e, quindi, la Chiesa – non esisterebbe il Cristianesimo senza la Chiesa – non sono più considerati dalla maggioranza delle persone, in Italia e in Europa, come strumenti per capire il mondo e per vivere nel mondo. Tampoco ai fini della salvezza.
Quale, d’altronde?! Siamo tutti convinti di essere già salvati da noi stessi. La sintesi culturale e spirituale di Gerusalemme, di Atene, di Roma si sta disintegrando. Lo aveva denunciato Papa Benedetto XVI nel discorso tenuto nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg il 12 settembre 2006, quando aveva descritto le tre ondate delle “de-ellenizzazione” del Cristianesimo: a) la Riforma protestante, che voleva liberare la fede dalla metafisica greca, affermando il principio esclusivo della “Sola Scriptura”; b) la teologia liberale di Adolf von Harnack, che, muovendo in senso opposto a quello di Lutero, intendeva togliere a Gesù la veste semitica della “Sola Scriptura” per fagli indossare quella socratica del filosofo morale; c) la cultura ecumenico-globalista, per la quale il messaggio del Nuovo Testamento deve essere “es-culturato” dall’ellenismo e “in-culturato” nelle varie culture mondiali.
Di queste Samuel P. Huntington aveva compilato un elenco nel 1993 su “Foregn Affairs”: Cristiano-occidentale, Cristiano-orientale, Latino-americana, Islamica, Indù, Cinese, Giapponese, Buddista, Africana.
Secondo lo studioso, si era messo in movimento un processo di “de-occidentalizzazione”, che la crescita demografica, lo sviluppo economico e la modernizzazione tecnologica avrebbero accelerato.
Diversamente da quanti prevedevano che la globalizzazione a guida occidentale avrebbe indotto un’analoga occidentalizzazione dei valori, Huntington sosteneva che “l’ulteriore modernizzazione finisce con l’alterare gli equilibri di potere tra l’Occidente e le società non occidentali, alimenta il potere e l’autostima di quelle società e rafforza in esse il senso di appartenenza alla propria cultura”.
Le conseguenze geopolitiche sono evidenti: l’ONU cessa di essere lo strumento di costruzione di una civiltà universale, fondata sui diritti umani e sulla democrazia, diventa soltanto la sigla di una pluralità di culture e di Stati-nazione in competizione.
Papa Francesco, “venuto dalla fine del mondo” – da quello non cristiano -occidentale della cultura Latino-americana – si è trovato ad affrontare la de-occidentalizzazione prevista da Huntigton e la de-ellenizzazione temuta da Papa Benedetto XVI. Intanto gli Europei cristiano-occidentali si stanno tranquillamente liberando del Cristianesimo, nell’illusione che i valori cristiano-liberali continueranno a fluire nelle loro società, anche se la loro sorgente originaria si sta riducendo ad un rigagnolo.
Papa Francesco ha rilanciato lo spirito del Concilio Vaticano II: uscire incontro al mondo. Ma il mondo non ha ascoltato Giovanni Paolo II, quando, anche lui “chiamato da un Paese lontano”, il 22 aprile 1978, gridò dall’alto della Loggia di San Pietro: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Il Vaticano II non ha fermato la secolarizzazione. Anzi, secondo una solida corrente tradizionalista, le avrebbe aperto la strada.
I cinque Papi del dopo-Concilio si sono trovati su questo drammatico crinale come “vox clamantis in deserto”.
Si deve intendere espressione nella versione di Isaia, 40,3: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore” o in quella di Giovanni 1, 22-23: “Io sono la voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore”. Forse si tratta del deserto di Isaia.
Ecco perché ai credenti, ai non-credenti, ai “cristiani anonimi” appare eroica e necessaria la traversata del deserto di Papa Francesco. Diversamente dal suo ultimo predecessore, che è entrato in alta competizione dottrinale con le filosofie del mondo, egli spinge i Cristiani a vivere la Chiesa come “un ospedale da campo”, come un posto dove si curano le ferite che il divenire storico infligge al tessuto esistenziale e a quello collettivo, al tempo della globalizzazione.
Non che Francesco sia agnostico sul piano dottrinale, ma non crede che sia lì che si gioca, oggi, il futuro della Chiesa. È nello slancio comunitario e missionario che si decide, come spiega nella Evangelii Gaudium.
Donde le posizioni “politiche” sulla pace e la guerra, sulla fratellanza universale, sulle periferie esistenziali, sulla difesa della terra, della vita e della corporeità umana… Di lì rifiorirà la fede cristiana? La posta in gioco continua ad essere quella di difendere e di far crescere l’umano nell’uomo. Senza il Cristianesimo sarebbe molto più difficile.
(articolo ripreso, con il permesso dell’autore, da Santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo)
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