Fra Gaza e il Libano, fra urgenti e impietose scelte di sopravvivenza, destinato ma deciso a combattere l’aggressione su sette diversi fronti di guerra, fronteggiato dagli Hezbollah in assetto di battaglia: così si disegna la situazione di Israele, come l’ha descritta Netanyahu durante un’intervista domenica. L’idea è quella di ridurre fino a spengerla la guerra di Rafah puntando sull’occupazione completa del confine con l’Egitto, lo “tzir Philadelphi”, il polmone di Hamas col mondo arabo, così da poter gestire le truppe e le armi per affrontare, al bisogno, un nemico peggiore di Hamas, gli Hezbollah. Cercare al Nord, dice Bibi, un accordo; altrimenti, combattere per vincere: la gente sgomberata da casa dovrà pure tornare a casa, gli Hezbollah devono restare oltre il Litani secondo la risoluzione dell’ONU. Ma Nasrallah soppesa i suoi interessi, non vuole buttare via otto mesi di sostegno militante a Hamas, minaccia Israele con più di 250mila missili, è il rappresentante del vero nemico, l’Iran, con lui minaccia di distruzione totale Israele e soppesa di fatto una terza guerra mondiale.
Osservano il comportamento americano: non è solo un fatto tecnico che il generale Charles Q. Brown, capo dei Capi di stato maggiore, ha dichiarato che gli USA avranno difficoltà a difendere Israele da un attacco missilistico potente. A aprile per i missili iraniani ci fu tempo di organizzarsi, qua la gragnuola sarebbe ravvicinata, incessante, i sistemi di difesa entrerebbero, è stato detto, in crisi. Netanyahu ha solo scelte di sopravvivenza: combattere, puntare sullo spirito di unità che dal 1948 vince guerre impossibili, premere sugli USA, l’amico e alleato. Anche Churchill disse a Roosevelt “let me finish the job” chiedendogli armi. Gli israeliani l’hanno fatto mille volte con gli USA. L’insistenza degli ultimi giorni era giustificata da un effettivo rallentamento: Biden vede Bibi come un potenziale alleato di Trump, e aspetta con fastidio il suo prossimo discorso al Congresso, il 24.
In piena guerra e mentre forse si apre il peggiore dei fronti, Israele ha di nuovo aperto la porta allo scontro interno sul nome di Netanyahu: parlare di elezioni e responsabilità è non solo legittimo ma necessario in democrazia, ma Sinwar e Nasrallah ascoltano e deliberano misurando la forza sull’unità interna di Israele, e sui suoi rapporti internazionali. Quando i terroristi con l’Iran, progettavano il 7 di ottobre, sentivano alla Knesset, alle tv, nelle piazze, gli slogan anti-Bibi, accompagnati dall’invito a non presentarsi al servizio di riserva. Il pogrom di Hamas ha però poi aperto una fase di intensa solidarietà, i riservisti e i ragazzi di leva si sono precipitati tutti insieme a combattere il nemico, unica è stata la resistenza delle famiglie orbate, mogli, madri, delle centinaia di migliaia di profughi al sud e al nord. Anche il “don’t” di Biden ha aiutato a resistere, ma poi è impallidito nella proibizione di Rafah, e nella pressione per gli aiuti umanitari che ci sarebbero stati comunque. Ha temuto le manifestazioni antisraeliane alla viglia delle elezioni, le continue accuse atroci a Israele (genocidio, apartheid, crimini di guerra) nelle sue università. Hezbollah, cauto all’inizio, memore della guerra del 2005, si è poi sempre più identificato col ruolo messianico religioso, l’emissario principe della Scia iraniana (che ha dietro anche la Russia) con un braccio sunnita insieme in una guerra che distruggerà Israele. Intanto, i fuochi in Israele, nelle strade, davanti alla casa stessa di Netanyahu, sono tornati ad accendersi, in piazza lo hanno chiamato “Satana” promettendogli la morte con la moglie e il figlio. Per i dimostranti e non solo, Bibi non accetta la tregua definitiva per liberare i rapiti perché la guerra prolunga il suo potere. Ma è vero il contrario: la guerra, così lunga e terribile, certo non dona alla biografia del PM già crivellata dal 7 ottobre. Netanyahu cerca un epilogo, ma gli Hezbollah sono imprevedibili e crudeli come Hamas, e hanno gli stessi burattinai. I sette fronti di Israele, riguardano tutti.
Fiamma Nirenstein
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