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L’eredità del PCI/13

Risponde Massimo Baldi, docente di estetica e filosofia del linguaggio. Dalla svolta di Salerno in poi il PCI ha vissuto una contraddizione profonda: essere un partito che viveva in uno Stato democratico  ed avere nel contempo un’organizzazione pensata per sostituirsi a esso.

12 Gennaio 2021 da Massimo Baldi Lascia un commento

Premettendo che non sono né un testimone di quella storia, né uno storico o uno storico della politica, cercherò di rispondere brevemente alla prima come alla seconda domanda.

Se dovessi individuare i geni ‘buoni’ dell’eredità comunista italiana, li individuerei, senza polemica e on tutta oggettività, nell’esser oggi, quella eredità, unica traccia di conservatorismo e tradizionalismo nella cultura diffusa e segnatamente nella cultura politica italiane. Qualcuno può leggere in ciò, se mi viene dietro, una eterogenesi dei fini, ma io credo – come intuì tra i primi e null’affatto polemicamente Walter Benjamin – che il carattere del marxismo sia nella sostanza un carattere conservatore, ciò di cui una società ha vitalmente bisogno. Curioso è semmai che la voce post-comunista sia l’unica voce limpidamente conservatrice in questa nostra Italia, salvo prendere sul serio certi melodrammi a base di rosari e presepi che ci propone la destra che ci è toccata in sorte. Tant’è: nessuno in Italia tutela i tempi andati, ne trattiene le tradizioni, le parole d’ordine, le grammatiche politiche, ne mette al riparo i simboli, i vessilli, perfino le ballate e le musiche, come i post-comunisti.

Parlando invece di una eredità deteriore del comunismo italiano debbo articolare il ragionamento in almeno tre punti. Il primo riguarda il ruolo politico e metapolitico del comunismo italiano dopo il 20 maggio 1970, dopo cioè la promulgazione della legge nota come Statuto dei lavoratori. Dopo quella conquista, il cui merito va sì alle forze maggioranza ma anche all’innegabile concorso dell’universo politico e sindacale comunista, quest’ultimo ha iniziato a vivere uno smarrimento ideologico e soprattutto progettuale e analitico che sopravvive ancor oggi. E dentro quello smarrimento, anziché liberarsi dei totem e dei tabu del passato per calcare il sentiero di nuovi bisogni di giustizia sociale, ha rincorso stancamente la società provando a riportarla indietro, sul luogo di un delitto mai compiuto, poiché solo in quel luogo il vecchio comunista poteva esercitare la propria funzione. Questo smarrimento e questo bisogno di passato fanno il paio con il secondo punto che vorrei affrontare: l’organizzazione. Credo che dalla svolta di Salerno in poi il PCI abbia vissuto una contraddizione profonda: essere un partito che faceva parte di una pluralità democratica di soggetti politici ed avere nel contempo un’organizzazione pensata non per vivere ‘nello’ Stato, ma per sostituirsi a esso. La burocrazia comunista non era un’infrastruttura socio-politica che serviva per vie indirette, a livello di società civile, lo Stato repubblicano e democratico, era anzi in competizione con la burocrazia statale (una competizione, va detto, da cui spesso usciva vincitrice). Tuttora i partiti post-comunisti, piccoli o grandi, hanno ereditato quel modello organizzativo (ahi loro, non efficiente né ben finanziato come quello comunista). E questa struttura, ormai, anziché comportarsi come un sistema immunitario sano che tutela l’organismo politico, è affetta inevitabilmente da una malattia autoimmune, in forza della quale vengono colpite le sue cellule migliori scambiate per intrusi e protette le sue cellule peggiori. Prima o poi, forse, tutti gli eredi di quella storia capiranno che i partiti sono infrastrutture politiche, non comunità. E che solo essendo socialmente permeabili e mutabili possono essere longevi. Infine, una riflessione su resistenza e antifascismo. Se in Italia quel patrimonio non è ancora divenuto materia patriottica comune, è certo colpa di un centro destra, unica anomalia europea, che ha sempre balbettato in materia di antifascismo; ma è certo anche colpa di una propensione comunista e post-comunista ad occupare ideologicamente quello spazio – che era poi il suo salvacondotto democratico – mostrando i denti e ringhiando ogni volta che da destra qualcuno vi si avvicinava. Questo permane tutt’oggi. Ogni anno il 25 aprile, in Piazza della Resistenza, un’amica che proviene orgogliosamente da quella storia mi punzecchia dicendo «quelli della lega non ci sono eh, ma io neanche ce li voglio!». E io puntualmente le rispondo: «io invece ce li vorrei. Con tanto di bandiere». Evito di dilungarmi e mi fermo qui, ringraziandovi per aver pensato a me.

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Info Massimo Baldi

Nato nel 1981 a Pistoia, dove vive. Dottore di ricerca e abilitato come professore associato in estetica e filosofia de linguaggio. È stato dirigente del Partito Democratico e Consigliere Regionale. Dal novembre del 2019 è iscritto a ItaliaViva.

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