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L’eredità del PCI/12

Risponde Daniela Belliti, ricercatrice di filosofia politica a Milano Bicocca. Difesa delle istituzioni democratiche, responsabilità nazionale e unità del mondo del lavoro erano i capisaldi dell’azione del PCI: una visione di una società che ha ancora molto da dire, a una sinistra riformatrice e al Paese. 

12 Gennaio 2021 da Daniela Belliti Lascia un commento

Quali sono i geni utili che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive può contribuire ancora oggi a difendere la sinistra, in primo luogo, ma assieme la società e la politica italiana?

I geni ancora utili del PCI stanno in quella natura costitutiva, che è stata internazionalmente riconosciuta come anomalia rispetto agli altri partiti comunisti dell’Occidente: l’essere stato un partito nazionale e popolare, responsabile verso l’interesse generale del Paese e mai di parte, di opposizione governante, nel senso che governava direttamente importanti città e regioni, e contribuiva fattivamente al governo dell’Italia anche da minoranza in Parlamento. Tutto ciò derivava dall’essere stato, il PCI, protagonista nella lotta di Resistenza e liberazione, dall’ aver reso possibile l’unità nazionale di tutti gli antifascisti (dalla svolta di Salerno in poi), dall’ aver lavorato alla scrittura della Costituzione italiana, alla quale giurò piena fedeltà, rispettandola anche nei momenti più difficili della storia repubblicana. L’aver scelto fermamente la democrazia, e dunque l’aver contrastato la lotta armata del terrorismo “rosso” e la demagogia di certa sinistra extraparlamentare, collocano il PCI in una posizione politica che oggi definiremmo antipopulista. E democratica era anche la visione della società, costruita sull’alleanza tra tutte le forze del lavoro, il cosiddetto patto tra produttori. Non è un caso che la massima espansione del PCI avviene quando è chiaro che la “proposta comunista” non è rivolta solo a una parte, ma a tutto il paese, lavoratori e ceto medio produttivo, per migliorare le condizioni di vita di tutti, e dare un futuro di benessere ai figli della classe operaia. Quindi, difesa delle istituzioni democratiche, responsabilità nazionale e unità del mondo del lavoro erano i capisaldi dell’azione del PCI: una visione di una società che ha ancora molto da dire, a una sinistra riformatrice e al Paese.

Quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione della sinistra per il cambiamento del Paese?

Potremmo dire che i vizi maggiori risiedono nell’eccesso delle virtù sopra richiamate. Il primo è una sorta di “concezione proprietaria” dell’antifascismo, ovvero la rivendicazione di parte di quell’esperienza che non è diventata memoria condivisa. Durante la “prima Repubblica”, il dato non era percepito; è esploso drammaticamente con la seconda Repubblica e con il berlusconismo, che sull’anticomunismo ha fatto leva per mettere addirittura in discussione la Festa nazionale del 25 aprile. La sinistra non ha ancora pienamente riflettuto su quello che ormai più di venti anni fa Remo Bodei definì il “Noi diviso” (che – detto per inciso – la risposta maldestra di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò” ha legittimato, non certo risolto), e che oggi rappresenta un pericolo per la cultura democratica dell’Italia. Il secondo “vizio” è la deviazione del senso di responsabilità nell’abito del conformismo. Questo “gene” è presente soprattutto nella vita interna dei partiti della sinistra, eredi del PCI: l’idea che per salvaguardare l’unità del partito non bisogna dividersi, anche a costo di rinunciare a dire quel che si pensa e a fare quel che si ritiene giusto. Questa modalità interiorizzata di reprimere la libertà di pensiero, prima governata dalla regola del centralismo democratico, oggi indebolisce la vitalità della politica. Mi riferisco al PD, che – può sembrare incredibile a dirsi – dal PCI ha ereditato più fedelmente questo costume rispetto a qualsiasi altro “gene”; in realtà il conformismo è la forma di vita interna più conveniente per chi “guida” un partito, ma non certamente la più democratica.

Infine, la “diversità”. Quando ne parlò Berlinguer nella famosa intervista a Scalfari del 1981, la diversità del PCI era incardinata nella “questione morale”, ovvero in un richiamo altissimo all’intransigenza e al rigore dei comportamenti in politica, a quella che oggi definiremmo “etica pubblica”. Quella diversità è stata purtroppo interpretata come la supposta superiorità della sinistra. Anche su questo punto ci sarebbe molto da lavorare, per capire come mai quel richiamo alla politica come servizio sia stato tradotto, all’opposto, come allontanamento dai ceti popolari, dove la destra ha negli ultimi anni fatto più proseliti. L’eterogenesi dei fini è il frutto più amaro della sinistra politica, in Italia ma non solo.

 

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Info Daniela Belliti

è ricercatrice di filosofia politica e sociale presso l’Università di Milano-Bicocca. E’ stata segretaria provinciale del PDS e poi del PD di Pistoia, consigliera regionale e vice-sindaca di Pistoia. Attualmente presiede l’Associazione politico-culturale Palomar.

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