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Quale politica industriale per la ripresa?

La grande opportunità dell’Italia sta nell’usare bene i fondi europei. Se prevale l’impostazione statalista perderemo una grande occasione di rilancio. Bisogna puntare sul rafforzamento delle piccole imprese, sulla ricerca, l’innovazione tecnologica e il miglioramento dei servizi.

11 Dicembre 2020 da Mauro Grassi 1 commento

Sul Corriere della Sera di lunedì 7 dicembre l’economista Giavazzi pone un serio interrogativo sulle politiche per la ripresa del paese nella fase post Covid. Ricorda a tutti che l’Italia è cresciuta negli ultimi 20 anni del solo 8% a fronte di un 30% della Francia e di un 36% della Germania. E ricorda che il reddito pro-capite degli italiani stava, prima della crisi pandemica, ancora sotto il livello pre-crisi finanziaria del 2008.  Insomma Giavazzi ci dice, con un alto senso di realismo, che la ripresa post covid non sarà una passeggiata. E che il rischio di un cattivo utilizzo degli oltre 200 miliardi del RRF è una evenienza molto probabile. L’argomentazione poggia su un parallelo, per buona parte condivisibile, con la stagnazione del Giappone che, dopo la grande spinta degli anni ’70 e ’80 che lasciava presagire al sorpasso degli Stati Uniti, ha colpito duramente il paese condannandolo ad una bassa crescita e ad un forte incremento del debito pubblico.

La causa principale, si dice, sta nel rapporto perverso fra invecchiamento della popolazione, che porta con sé una cultura sociale più attenta allo status quo che al cambiamento, e la difesa delle grandi imprese “burocratizzate” che, abituate a pratiche di inseguimento della tecnologica americana, non sono state più in grado di essere il traino dell’innovazione nel paese. Quindi una stagnazione da cultura sociale e da struttura economica ambedue scarsamente innovative.

Il parallelo con quanto è avvenuto e sta avvenendo in Italia è presto fatto. L’invecchiamento della popolazione, la bassa natalità e la permanenza dei giovani lungamente in famiglia parlano di un paese che si è fermato. E che sta più attento, come succede per il “mondo anziano”, a difendere le posizioni raggiunte piuttosto che l’accettazione del rischio e dell’innovazione. Basta vedere le ansie e le paure di questa Italia per capire che queste ci riportano più alle fragilità degli anziani che alla naturale incoscienza e spensieratezza del “mondo giovanile”. Insomma è difficile che l’economia cresca se la società è ferma e non si preoccupa di andare avanti ma piuttosto di mantenere quanto raggiunto.

Per quanto riguarda la struttura economica Giavazzi ci ricorda la tendenza, che è diventata sempre più forte negli ultimi anni e che sembra rafforzarsi ancora di più oggi sia per il crescere di una cultura politica statalista (l’approccio grillino ma anche leghista-italico) sia per l’evidente difficoltà economica indotta dalla crisi sanitaria, a considerare la grande impresa “statalizzata” come una risposta necessaria di fronte alla debolezza del paese.

E il parallelo è presto fatto. Saranno tempi duri, appare la conclusione di Giavazzi, lasciandoci con la prospettiva di una stagnazione lunga e particolarmente grave in quanto inserita nel contesto di un indebitamento pubblico enorme e destinato al peggioramento per mancanza di crescita economica.

Come non concordare con questa lettura delle vicende economiche dell’Italia. Resta semmai un unico elemento di differenziazione rispetto alla valutazione estremamente negativa e scoraggiante di Giavazzi.

E cioè il giudizio sulla struttura industriale dell’Italia. Si può dire che tale struttura è troppo “piccola”, sia nel senso che non copre diffusamente l’intero paese sia nel senso che è fatta di piccole e medie imprese che trovano difficoltà (o utilità?) a non realizzare percorsi di crescita interna, ma non che sia una struttura scarsamente innovativa. Ci sono tante piccolo-medie imprese che stanno nella frontiera tecnologica internazionale, che innovano e che sanno competere sui mercati esteri. La piccola dimensione spesso le porta ad essere buoni fornitori piuttosto che imprese leader, ma non per questo possono essere considerate marginali nel mercato mondiale. E le grandi imprese, anche quelle “in parte statalizzate” che rappresentano gran parte di questo comparto produttivo non si possono definire come “ferri vecchi”. Parlo di Enel, Eni, Fincantieri, Terna, Leonardo Finmeccanica, etc. Insomma c’è un pezzo di economia che se messo in condizione di crescere e di fare investimenti in ricerca e innovazione può essere una base di partenza, per alcuni versi limitata ma non inesistente, per un rilancio produttivo avanzato del paese.

Il problema sta allora in quale politica industriale si cimenterà il Governo nel contesto del RRF e delle altre risorse finanziarie che si renderanno disponibili nei prossimi anni. E qui concordo di nuovo con Giavazzi. Se i fondi andranno a sussidiare imprese e settori decotti, con l’ingresso dello Stato in una funzione imprenditoriale che non sa fare, si sarà persa una grande occasione di cambiamento e di rilancio. Se invece si sceglierà una politica che per le piccole e medie imprese punterà sul loro rafforzamento strutturale, di cui quello dimensionale è solo una componente e a volte neppure la più importante, e che per le grandi imprese punterà sulla crescita di funzioni come la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione allora sarà possibile introdurre nella lenta economia italiana un qualche elemento di spinta che al momento appare solo in parte esistente.

E’ evidente che un politica per l’innovazione deve puntare alle imprese industriali ma non può essere soltanto settoriale. Non avremo una industria 4.0 se i servizi privati e ancor di più quelli pubblici resteranno fermi al massimo al 2.0. E se la scuola e la formazione continueranno a sfornare studenti svogliati, senza una seria formazione, privi di una spinta a misurarsi con la modernità e in grado di accettare la sfida della meritocrazia delle competenze.

Insomma una Italia che cresce è una Italia diversa che punta sull’industria più avanzata ma che deve accompagnare il sistema industriale con una qualità corale. Di tutti i settori e comparti dell’economia. E anche con l’intera società che, pur anziana e in cerca di rassicurazioni, accetti di assecondare la spinta degli “animal spirits” più innovativi e più dirompenti. E’ da questi che dipende il futuro del paese. Anche le pensioni degli anziani.

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Info Mauro Grassi

Mauro Grassi. Nato e residente a Firenze 68 anni. Laureato in statistica e in economia a pieni voti. E' stato Direttore di ricerca all'Irpet (Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana) fino al 2000. Quindi Direttore Generale della Regione Toscana fino al 2011. Dopo una breve esperienza di Assessore all'Ambiente e all'Urbanistica al Comune di Livorno ha svolto dal 2013 incarichi di direzione presso il Ministero delle Infrastrutture e la Presidenza del Consiglio (Direttore di #Italiasicura). Attualmente svolge attività di Consulenza in campo ambientale.

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Interazioni del lettore

Commenti

  1. Renzo Landeschi dice

    8 Dicembre 2020 alle 12:45

    Credo che gli articoli di Mauro Grassi siano nono solo la leggere, ma anche da studiare. complimenti a Mauro

    Rispondi

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