In seguito alla richiesta di estradizione dei nostri ex terroristi rossi (finalmente) presa in considerazione dalla Giustizia francese, è partito come un riflesso condizionato il solito manifesto degli intellettuali francesi in difesa dei povericristi perseguitati. Il solito manifesto nel senso che all’incirca gli stessi nomi si erano spesi in passato per sostenere la causa di Cesare Battisti, altro “eroe” della lotta armata, scappato come Sandro Pertini dalla dittatura ed ospitato per un po’ nella patria dei Lumi.
La vicenda di Battisti si è poi conclusa, dopo un paio di decenni trascorsi bevendo cocktail mojito sotto il sole tropicale e la copertura politica di Lula, con un rimpatrio forzato e i piagnistei degli intellò che non mancano anche qui da noi. Se ne potrebbero citare di nomi prestigiosi, giusto per fare degli esempi; ai tempi dei tempi, alcuni di loro firmarono un altro manifesto contro il commissario Calabresi – lui sì per davvero un poverocristo -, poi finito ammazzato per ordine dei leader massimi di Lotta continua: uno dei quali, Giorgio Pietrostefani, guarda caso, è tra i sette fermati a Parigi.
La dottrina Mitterand consisteva in una premessa o meglio un pregiudizio: che in Italia la Giustizia non garantisse agli imputati di reati per motivi politici un giusto processo. E quindi: la Francia apriva le porte, come ai tempi del fascismo, e consentiva anche ai terroristi condannati di trascorrere serenamente la vecchiaia; purché la smettessero di sequestrare, ammazzare o gambizzare i nemici del popolo.
Praticamente, sarebbe come se in Italia ospitassimo i terroristi del Bataclan o di Charlie Hebdo a piede libero, purché ci promettessero di starsene buoni buoni in un appartamento di periferia e al massimo di andare a pregare in qualche moschea nostrana.
Tra i sette che sono stati ascoltati nell’aula della Corte di appello di Parigi e che da più di trent’anni vivono indisturbati in Francia, ci sono nomi di spicco del terrorismo rosso: come Marina Petrella, una dei responsabili del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro; c’è Roberta Cappelli, anche lei faceva parte della colonna romana delle BR. Quattro di loro hanno una condanna all’ergastolo. Pietrostefani deve scontare una condanna di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni.
In Italia, prima della fuga, s’erano lasciata alle spalle una vera e propria scia di sangue. Vite annientate e famiglie distrutte in nome del loro delirio ideologico.
Ma oggi che sono anziani e combattono soltanto contro gli acciacchi dell’età a colpi di cardioaspirine e farmaci per l’ipertensione, non vorrebbero tornare in Italia per finire in carcere e magari doversi fare una rimpatriata con Cesare Battisti e qualche altro vecchio compagno dei tempi andati.
La giustizia non è vendetta, dicono in molti. Per questo la giustizia riparativa viene citata come strumento alternativo al carcere. E c’è chi propone un’amnistia generale, come quella di Togliatti ministro della Giustizia nel ’46.
Forse l’amnistia potrebbe essere la soluzione anche oggi, per chiudere definitivamente quelle tragiche pagine di storia italiana e consegnarle alla memoria condivisa. Ma prima bisognerebbe che gli ex terroristi tornassero qui, guardassero negli occhi persone come Adriano Sabbadin, figlio del macellaio Lino Sabbadin, ucciso nel 1979 dai Pac, e chiedessero loro perdono; e ammettessero di avere sbagliato tutto durante quei maledetti anni di piombo.
Come disse la giovane vedova di un poliziotto a un altro genere di terroristi che avevano ammazzato il giudice Falcone e gli agenti della sua scorta: “Io vi perdono, ma prima dovete venire a mettervi in ginocchio”.
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