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Solo Riformisti

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Un nuovo fisco per la crescita

Il nostro sistema fiscale è sfilacciato e distorsivo. La riforma deve essere complessiva e organica e non può essere usata per acquisire consenso. Una prima analisi dei problemi legati a IRPEF, IVA, IRAP e fisco municipale.

8 Luglio 2020 da Alessandro Petretto Lascia un commento

Nel Programma Nazionale di Riforme (PNR) che il governo deve presentare alla Commissione Europea, come allegato (quest’anno ritardato) al DEF, c’è un riferimento specifico alla riforma del fisco. Le indicazioni contenute sono piuttosto generiche in quanto si asserisce che la riforma dovrebbe essere improntata all’efficienza, all’equità e alla progressività e a incentivare le imprese ad investire e a creare reddito e lavoro. Un’attenzione particolare sarà dedicata alla tassazione ambientale e ai profili di genere. Immancabile un riferimento diretto al contrasto all’evasione, soprattutto promuovendo i pagamenti digitali. Nel proporre un primo commento e riservandomi di ritornare sulle più dettagliate proposte quando saranno disponibili, mi soffermerò su quattro punti, i primi due al centro del dibattito, gli altri due più defilati, ma non meno importanti: la struttura dell’IRPEF e dell’l’IVA, l’IRAP e il finanziamento del Servizio sanitario nazionale e il fisco municipale.

Quanto all’IRPEF, non è opportuno concentrarsi esclusivamente sulla riforma della struttura delle aliquote (numero e altezza) che attira da sempre l’attenzione del dibattito politico. Anche la base imponibile, erosa nel corso degli anni in modo consistente e non coordinato, è importante per valutare le performance del tributo nel conseguire gli obiettivi di gettito e redistribuzione. Oggi l’IRPEF è essenzialmente un’imposta sul reddito da lavoro dipendente e da pensioni, un po’ poco per rappresentare il baluardo del sistema fiscale italiano in direzione della comprehensive income tax (la più ampia possibile base imponibile con le aliquote più basse possibile) come concepito dalla Commissione Cosciani da cui è scaturita la riforma del 1973-74. Anche l’accumulazione negli anni delle varie tipologie di detrazioni per lavoro e famiglia ha prodotto effetti redistributivi talvolta perversi e inciso sull’efficienza del tributo, in particolare sul sistema delle aliquote marginali effettive. Sono queste che determinano gli incentivi al lavoro e al risparmio. Oggi il sistema, oltre la no tax area, vede prevalere un’aliquota effettiva intorno al 27-30 per cento sotto i 28mila euro e intorno al 41-43 per cento per redditi sopra tale soglia: uno scalino ampio e anacronistico, da correggere modificando le aliquote legali in questo intervallo e stabilendo priorità nelle detrazioni con l’intento di favorire il ceto medio e le famiglie con figli.

L’IVA è un’imposta molto di moda come oggetto di riforma fiscale, ma facendo spesso confusione tra lo strumento finalizzato a questioni strutturali connesse all’efficienza e all’equità del tributo e dell’intero sistema fiscale e lo strumento di stimolo ai consumi per rilanciare l’economia. Sotto il primo profilo le aliquote non dovrebbero essere diminuite piuttosto alzate per finanziare corpose riduzioni del cuneo fiscale. A questo proposito, è mia opinione, che sia stato un errore negli anni passati non lasciare operare un’applicazione anche parziale delle clausole di salvaguardia.  Sotto il secondo profilo, è ormai appurato che la funzione del consumo delle famiglie non è più quella standard da libro di testo che collega i consumi al reddito reale disponibile.  I consumi correnti dipendono dal reddito permanente, dall’occupazione e dalle aspettative e quindi dalla fiducia nell’evoluzione dell’economia e, in virtù dei prestiti al consumo, tendono ad assumere un profilo più “smussato” del reddito, anche in situazioni di crisi. La riduzione delle aliquote dell’IVA agirebbe poi sui prezzi dei beni, il cui livello non è al momento l’impedimento più significativo al consumo. Ad ogni modo, le aliquote possono essere rimodulate per renderle più aderenti al sistema moderno dei consumi delle famiglie e più redistributive, ma intanto, l’IVA dovrebbe soprattutto essere pagata, essendo il tributo più evaso del nostro sistema, come i partner dell’UE e la Commissione europea ci ricordano a più riprese.

L’IRAP è stata istituita alla fine degli anni ’90 del secolo scorso per sostituire una serie di tributi sul reddito e sul patrimonio delle imprese, col compito di affiancare l’addizionale regionale all’IRPEF, che grava sulle famiglie, per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale. L’imposta, in linea di principio, è sul valore aggiunto quindi sul costo dei fattori produttivi (capitale e lavoro) impiegati nelle imprese. È molto invisa perché è dovuta anche quando l’impresa è in perdita ed è dovuta anche quando il capitale è un fattore irrilevante rispetto al lavoro, come nelle professioni. Per questo la sua base imponibile è stata svuotata nel tempo, fino alla recente eliminazione del costo del lavoro. Se si va verso l’abolizione completa dell’IRAP, occorre trovare una forma di finanziamento in sostituzione e non è facile, a meno che non si voglia tornare ad un sistema di contributi sanitari che mal si concilia con il servizio sanitario pubblico di tipo beveridgiano come quello italiano.

Infine il fisco locale. Oggi, dopo ripetuti interventi, la finanza comunale ha perduto i caratteri dell’autonomia e della discrezionalità che la riforma del Titolo V gli assegnava, tanto da prefigurare un sistema fiscale semi-federale. La recente riforma dell’IMU ha dato il colpo di grazia finale eliminando e accorpando una service tax come la TASI che andava invece potenziata e resa del tutto indipendente dall’IMU. La mancata riforma del catasto ha ossificato il sistema di tassazione immobiliare su valori spesso anacronistici, con perdite di base imponibile a favore dei proprietari di immobili situati in comuni turistici e con centri storici. Infine, l’esenzione della tassazione sulla prima casa, un provvedimento con molte giustificazioni storiche nella realtà italiana, produce una perdita della base imponibile patrimoniale che indebolisce la portata redistributiva del relativo tributo.

Come ha più volte sostenuto il Governatore della Banca d’Italia, occorre una riforma fiscale complessiva e organica che soppesi il ruolo delle singole componenti di imposizione diretta e indiretta, sul reddito e sul patrimonio. Tuttavia, come insegna la moderna Political economy della tassazione, la tentazione dei politici è invece quella di effettuare interventi parziali per acquisire il consenso ora di una base elettorale ora di un’altra. Bisogna scongiurare questa eventualità, non ci possiamo permettere una serie di pezze messe qua e là; il quadro del nostro sistema fiscale è già abbastanza contorto e sfilacciato e costituisce il freno più rilevante alla crescita della nostra economia.

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Info Alessandro Petretto

Professore emerito dell’Università degli studi di Firenze. Insegna Politica economica alla Scuola di economia e management di Firenze. E’ stato presidente della Commissione tecnica per la spesa pubblica del Tesoro e presidente della Società italiana di economia pubblica. E’ membro del Comitato scientifico dell’Ufficio Parlamentare del Bilancio.

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