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Solo Riformisti

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Se la riforma non riforma, non è una riforma

La storia della Repubblica è costellata di infiniti piani di riforme. Tutti i Governi sono stati prodighi nell’annunciarli. Molti annunci sono però naufragati o perché le riforme non sono state avviate, o perché non hanno prodotto cambiamenti.

23 Marzo 2021 da Carlo Manacorda 1 commento

Sotto l’ombrellone del Recovery Plan, c’è un gran parlare di riforme: della Pubblica Amministrazione, della Giustizia, per la Semplificazione e la Digitalizzazione e via cantando. Il Governo assicura che tutte le riforme si perfezioneranno nei tempi stabiliti. Pena: non riscuotere il premio di 209 miliardi promesso dall’Europa al nostro Paese.

Orbene, posto che tutto il processo riformatore si completi, formalmente, nei detti tempi, resta la curiosità di vedere se e come ne avverrà l’attuazione. Infatti, per incassare interamente il premio, occorre che le riforme non siano soltanto scritte ma anche messe in pratica.

La curiosità non è infondata. La storia della Repubblica è costellata di infiniti piani di riforme. Tutti i Governi, di ogni composizione politica, sono stati prodighi nell’annunciarli. Molti annunci sono però naufragati o perché le riforme non sono state nemmeno avviate, o perché non hanno prodotto i cambiamenti cui erano preordinate. Ogni riforma non andata a buon fine ha cause proprie dell’insuccesso.

Una riforma amministrativa ― specie se di ampia portata ― inizia, solitamente, con una legge del Parlamento che delega il Governo a modificare, entro un determinato tempo, l’ordinamento di specifici settori. Il Governo può dare corso alla delega, o darvi corso soltanto parzialmente, o non darvi corso in alcun modo. In quest’ultimo caso, la delega decade. La decadenza può avvenire anche perché il Governo in carica non traduce la riforma in regole concrete nei tempi assegnati. Oppure perché, nel frattempo, cambia il Governo. Quando il Governo ottempera alla delega, è comunque necessario verificare se la riforma viene effettivamente applicata. Se mancano le verifiche in questo senso, gli effetti della riforma possono essere nulli. La riforma è, comunque, destinata al fallimento.

Ma vi possono essere altre cause del fallimento. La riforma viene annunciata senza aver previamente accertato che esistano i fondi sufficienti per realizzarla, ovvero che sussistano tutte le condizioni occorrenti a questo fine: professionalità, tecnologie, infrastrutture, controlli, ecc. Naturale che in questi casi, non infrequenti, la riforma non vada avanti. La casistica storica di riforme arenatesi per fatti di questo genere è ricca.

Restando a tempi recenti, viene bene citare due casi che dimostrano come riforme solennemente annunciate abbiano avuto esiti confusi o poco soddisfacenti.

La cosiddetta “Riforma Delrio” (L.56/2014) ― dal nome del Ministro che l’ha avviata ― doveva dare un assetto alle Città metropolitane, abolire le Province e dettare norme per le unioni e fusioni di Comuni. La sua attuazione piena dipendeva però, ampiamente, dalle ulteriori modificazioni che si dovevano apportare al Titolo V della seconda parte della Costituzione, sulla base della riforma costituzionale predisposta dal Governo Renzi nel 2016. Bocciata questa riforma dal referendum, la Riforma Delrio è rimasta (e lo è tuttora) incompiuta. Quali gli esiti?

Le Province sono rimaste e continuano a svolgere importanti servizi pubblici: la gestione di circa 6000 scuole e la manutenzione di 135 mila kilometri di strade, compresi viadotti e ponti. Però devono fare tutto questo pur avendo perso buona parte del personale e subito tagli draconiani nei finanziamenti. Stato e Regioni che, entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge 56/2014 dovevano ridisegnare le funzioni delle Province, vi hanno provveduto in forme parziali e disomogenee. Conseguenze: caos per le Province ancora rimaste e nei rapporti tra gli enti istituzionali (la domanda “chi fa che cosa” è frequente; gli inadempimenti sono sotto gli occhi di tutti). Anche per le Città metropolitane la Riforma Delrio non ha avuto sviluppi entusiasmanti. Poiché il federalismo fiscale è rimasto in buona parte inattuato, è sempre la legge di bilancio dello Stato che ne definisce il finanziamento (per il 2021, L. 178/2020, commi 783-785).

Un’altra riforma rimasta a mezz’aria è quella per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (L. 124/2015), nota come “Riforma Madia” (dal nome dell’allora Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione). La riforma era indirizzata a molti settori della Pubblica Amministrazione. Alcuni però ne sono rimasti fuori per fatti di decadenza.

Tra le riforme da effettuare c’era quella delle società a partecipazione pubblica. Si trattava di fare chiarezza su una questione che, nel tempo, era andata assumendo dimensioni gigantesche per quantità numeriche e movimenti finanziari, tutti comunque gravanti sulla finanza pubblica. Questa riforma vede la luce nel 2016 (d.lgs. 175/2016: “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”). Le pubbliche amministrazioni, attraverso una revisione straordinaria iniziale e una ordinaria annuale, devono porre termine alle partecipazioni in enti non giustificate dai principi stabiliti nel testo unico. E’ previsto anche il divieto di costituire società o partecipare a società che producano beni o servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle finalità istituzionali.

La lettura dell’ultimo “Rapporto sulle partecipazioni delle amministrazioni pubbliche” del Ministero dell’economia e delle finanze al 31.12.2017 (www.dt.mef.gov.it/it/attivita_istituzionali/partecipazioni_pubbliche/censimento_partecipazioni) è desolante per i risultati ottenuti nel riordino delle partecipazioni. Alcune amministrazioni pubbliche non risultano aver fatto alcuna revisione delle loro partecipazioni; altre forniscono i dati sulla revisione in ritardo e parzialmente. Anche la data del Rapporto è significativa delle modeste attenzioni dedicate a questa riforma. E questo nonostante i costi per la finanza pubblica nel mantenere queste strutture, per non dire che spesso sono anche sede di fatti di corruzione (ma le partecipazioni pubbliche sono sempre utili per i posti di sottogoverno che offrono).

Se gli interventi spacciati come “riforme” non producono cambiamenti significativi, meglio non definirli tali. In altre parole ― e scusando il bisticcio verbale utilizzato anche nel titolo dello scritto ―, se la riforma non riforma, meglio non definirla riforma. Poiché il sistema Paese, per consolidati stati e comportamenti, non sempre è sensibile al cambiamento, è auspicabile che ci sia anche una riforma dei comportamenti affinché le riforme annunciate con il Recovery plan vadano a buon fine.

 

 

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Info Carlo Manacorda

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Torino, è stato Direttore di Enti pubblici, Presidente di Società private, Componente di Consigli di Am-ministrazione, ed ha rivestito altre cariche pubbliche. E’ stato Docente di Contabilità pubblica e di Scienza delle Finanze presso le Facoltà di Econo-mia e di Giurisprudenza dell’Università di Torino, Componente del Nucleo di Valutazione della stessa Università e Presidente del Nucleo di Valutazione dell’Università della Valle d’Aosta. E’ stato Componente dell’Organismo di Vigilanza di Finpiemonte Partecipazioni S.p.A. e iscritto nel Registro dei Revisori contabili. E' Autore di oltre 150 pubblicazioni (libri e saggi) in ma-teria di Economia e Contabilità pubblica, Diritto pubblico, Organizzazione e Gestione delle Amministrazioni pubbliche e private. Ha scritto e scrive su Giornali, Riviste e altri periodici.

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