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La stragrande maggioranza di chi fa politica promette cose impossibili o per ignoranza dei problemi reali o per cinismo e interesse personale. Non sono più tollerabili partiti che spingono la democrazia ai confini della demagogia.

La rivolta della società

La stragrande maggioranza di chi fa politica promette cose impossibili o per ignoranza dei problemi reali o per cinismo e interesse personale. Non sono più tollerabili partiti che spingono la democrazia ai confini della demagogia.

20 Luglio 2021 da Michele Salvati Lascia un commento

Il libro di Francesco Tuccari (La rivolta della società: l’Italia dal 1989 a oggi, Laterza, 2020, 120 pp.), pur essendo molto breve, è la migliore sintesi disponibile del dramma politico in tre atti che è andato in scena in Italia negli ultimi trent’anni. Un libro che dimostra quanto è possibile comprendere di un’esperienza storica se ci si affida ai grandi maestri cui si è affidato Tuccari, a Max Weber e Karl Polanyi. Essendo questo il mio giudizio, per me non è facile trovare spunti critici nel libretto di Tuccari e credo che anche Massimo Salvadori condivida questa difficoltà: forse sarebbe stato opportuno avere in questa tavola rotonda anche qualche studioso che si affida a maestri diversi dai nostri.

Domanda. Perché si rivolta la società, per ora e per fortuna solo nei seggi elettorali? Perché si fa adescare da proposte demagogiche e da politici incompetenti, che la spingono sempre più indietro nella sua capacità di reagire alle difficili condizioni interne e internazionali con le quali si confronta? Se dovessi azzardare una risposta – in termini così rozzi ovviamente non la si trova in Tuccari – direi che ciò è avvenuto perché i partiti politici le promettono un mondo di crescente benessere senza fatica, di diritti senza doveri, e quando la società («la gente») si accorge di vivere in un mondo assai diverso, essa si rivolta contro i governi che non onorano quelle illusorie promesse, e dunque contro i partiti che li hanno sostenuti.

Ma perché i partiti promettono un benessere che non sono in grado di promuovere? A volte, ma di rado, ciò avviene perché i loro dirigenti si illudono di aver trovato la pietra filosofale e credono veramente che le loro iniziative siano in grado di rimettere in moto una «macchina» economica, istituzionale e amministrativa da tempo ingrippata: il grado di incomprensione e di ignoranza dei problemi reali del nostro Paese di alcuni «politici» di grande ed effimero successo – sto pensando soprattutto ai 5 Stelle – rasenta l’incredibile. Più spesso, però, i politici conoscono abbastanza bene i guasti della macchina, ma non è nel loro interesse come partito proporre rimedi che potrebbero iniziare a farla funzionale. Questi rimedi sono lenti, impopolari e costosi in termini di consenso elettorale immediato, mentre le promesse elettorali, rafforzate dall’antagonismo ideologico radicato in Italia, non costano nulla quando si è all’opposizione: se si è in grado di sfruttare abilmente l’insoddisfazione diffusa e incanalarla verso temi al momento molto sentiti, esse possono produrre una vittoria elettorale, meta suprema di ogni partito. Ci sarà poi la prova del governo e il rischio di non soddisfare le aspettative suscitate, quasi una certezza, se questo è il modo di affrontare una campagna elettorale…Ma chi vivrà vedrà: c’è sempre l’imprevedibile, la fortuna, lo stellone italico.

Nei vent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, dunque ben dentro quella Repubblica dei partiti che venne distrutta da Mani Pulite, già così funzionava la politica

Salvo che nei vent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, dunque ben dentro quella Repubblica dei partiti che venne distrutta da Mani Pulite, già così funzionava la politica. Si tratta di un vizio endemico delle democrazie, più o meno dannoso a seconda della qualità delle classi dirigenti e delle diverse culture politiche nazionali: nel caso italiano la grande inflazione e il grande debito pubblico degli anni Settanta-Novanta ne sono una prova evidente. In altri Paesi europei, dove le fratture politiche e sociali interne erano meno forti, le istituzioni statali più solide e i ceti dirigenti più lungimiranti, fenomeni come la rivolta sociale di Mani Pulite e l’avvento di Berlusconi non si verificarono. In questi Paesi non ci fu dunque, tra l’ultimo decennio del secolo scorso e il primo di questo, il passaggio dalla «Repubblica dei partiti» alla «Repubblica post-democratica», come la chiama Tuccari. Dunque, non ci fu il passaggio dal primo al secondo atto del nostro dramma. E lo stesso populismo, che ha infettato tutte le democrazie dei Paesi democratici avanzati dopo la Grande recessione del 2007-2009, non ha portato partiti e movimenti populisti/sovranisti al governo del Paese, com’è avvenuto in Italia dopo le elezioni del 2018. Si tratta di un terzo atto del nostro dramma? Ci si avvia, dopo la Repubblica post-democratica verso una «Repubblica del popolo»? Tuccari non risponde a questa domanda. Registra il fallimento dell’esperimento giallo-verde (dunque della «Repubblica del popolo») e i faticosi inizi del governo giallo-rosso, ma il dramma si interrompe a inizio 2020 (perché il libro viene pubblicato), mentre noi abbiamo seguito le convulsioni della politica italiana per un altro anno e mezzo: la pandemia, la caduta del governo giallo-rosso e l’avvio del governo Draghi.

 

Tuccari è uno storico delle idee politiche e uno scienziato politico, non un economista, anche se si affida a due grandi studiosi, Weber e Polanyi, che non erano ostacolati da confini disciplinari. Poggiando sulle spalle di quei giganti, egli dà un peso adeguato alle trasformazioni economiche e geopolitiche che sono avvenute nel Dopoguerra, in particolare dopo la fine del regime politico-economico che aveva caratterizzato il nostro angolo di mondo nei Trent’anni gloriosi. Il fordismo e il Keynesismo – insieme all’atteggiamento pro labour allora dominante negli Stati Uniti e nel Regno Unito – furono le influenze che produssero il grande sviluppo delle democrazie avanzate soggette all’egemonia americana, la piena occupazione e il Welfare State, e anche l’Italia seppe approfittarne. Queste influenze, e gli equilibri economico-politici che ne conseguivano, resistettero sino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, poi entrarono in crisi. A esse fece seguito un regime economico-politico profondamente diverso e che dura tuttora: quel regime – solitamente definito come neoliberista – il quale ha condotto alla globalizzazione, all’unificazione del mondo intero sotto l’egida del capitalismo, a trasformazioni tecnologiche rivoluzionarie, a una travolgente crescita economica per alcuni Paesi in precedenza sottosviluppati. Ma anche a un rallentamento della crescita per i Paesi che si erano maggiormente sviluppati nei Trent’anni gloriosi, a disoccupazione e a precarizzazione del lavoro, a diseguaglianze sempre più accentuate.

Tra i Paesi in cui questi fenomeni si verificarono nel modo più intenso c’è il nostro: mentre in altri vennero più rapidamente adottate le riforme che dovevano essere introdotte nelle politiche nazionali a seguito del mutamento del regime internazionale, questo avvenne con maggiore esitazione e ritardo in Italia. È corretto ma generico riferirsi alla inferiore qualità delle classi dirigenti, alle più forti fratture sociali, alla minore solidità delle istituzioni statali, alla maggior debolezza della struttura economica del nostro Paese. Ma per rendere minore il danno prodotto dal mutamento di regime internazionale, e anzi avvalersi delle opportunità che esso offriva, dovevano essere introdotti adattamenti impegnativi, e questo non avvenne: i partiti non guidavano il Paese all’accettazione di riforme necessarie ma impopolari e, quando la situazione diventava insostenibile, lasciavano le riforme più urgenti a governi tecnici, pronti a riprendere il controllo quando ritenevano che l’emergenza fosse finita.

Per capire come mai, tra tutte le grandi democrazie europee, la nostra sia quella andata incontro alle maggiori difficoltà, va ripensata l’intera storia economico-politica italiana, almeno dalla fine della guerra

Gli ultimi tre atti di questo dramma sono quelli che mette in scena Tuccari, e lo fa assai bene. Ma per capire come mai, tra tutte le grandi democrazie europee, la nostra sia quella andata incontro alle maggiori difficoltà e l’unica che da più di vent’anni versa in condizioni di ristagno economico che rischiano di trasformarsi in una lunga fase di declino, non basta un breve libro come questo: è l’intera storia economico-politica italiana che va ripensata, almeno dalla fine della guerra. Oggi, dopo la Grande recessione e la pandemia, il neoliberismo è in crisi e la vittoria di Biden nelle elezioni presidenziali americane segnala la possibilità, quantomeno nel nostro angolo di mondo, di un assetto liberale più vicino a quello dei Trent’anni gloriosi del Dopoguerra. Ma Biden non basta. L’Unione europea deve mutare profondamente gli indirizzi che ha seguito durante la fase neoliberista. E lo stesso deve fare il nostro Paese: per sopravvivere e prosperare in un contesto globale non può tollerare partiti che spingano la democrazia ai confini della demagogia e oltre.

Come ho detto all’inizio, questa è una tendenza innata nelle democrazie rappresentative. Tuttavia – e lo dimostra l’esperienza di altre democrazie avanzate – si tratta di una tendenza che può essere tenuta a freno, senza abbandonare il suffragio universale e le regole di uno Stato di diritto: quanto è avvenuto dopo che Tuccari ha terminato il suo libro, la mancata trasformazione della «Repubblica postdemocratica» in una «Repubblica del popolo», può dunque alimentare qualche speranza.

 

[Questo testo rielabora un intervento alla tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Luigi Einaudi il 27 maggio 2021 per discutere il libro di Francesco Tuccari, alla presenza dell’autore e di Massimo Salvadori, Paolo Soddu e Barbara Curli]

(questo testo, con il consenso dell’autore e della rivista, è ripreso dalla rivista Il Mulino)

 

 

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