Ho tre amici molto intelligenti. Claudio, un esperto di comunicazione. Giovanni, un manager dei sistemi sanitari. Gino, un filosofo. Da loro ho avuto tre prognosi diverse dell’attuale congiuntura epidemica. Due ottimiste e una pessimista.
Claudio si dice convinto che dalla crisi usciremo migliori. Più globalizzazione. Più professionalità. Più smart working. Più correttezza nell’informazione.
Giovanni prevede una rivincita delle politiche keynesiane, dell’intervento statale e dunque della sinistra. In Europa e negli Usa.
Gino individua nella dinamica dell’emergenza il segno di altre crisi già presenti nel mondo occidentale e destinate ad acuirsi. La crisi dell’Europa, la crisi del ceto politico, la crisi della democrazia rappresentativa.
Tre prospettive che forse potranno anche mischiarsi, nella pragmatica articolazione delle politiche anticrisi adottate. Ma che nella sostanza sembrano incompatibili, perché toccano corde troppo sistemiche e storicamente alternative. Chi vincerà? Il mercato o lo stato? Il liberismo o il welfare? La democrazia rappresentativa o la democrazia diretta?
A me sembra che ogni risposta, oggi, sarebbe prematura. Anche perché non è detto che simili categorie, stato, mercato, democrazia, resistano ai colpi della Grande Trasformazione nella loro originaria versione sette-novecentesca (e occidentale).
(questo articolo con il consenso dell’autore è stato ripreso dal sito https://www.ragionepolitica.it)
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