Il 12 giugno si celebrano i 5 referenda sulla giustizia per cui sono state raccolte firme da radicali e da Lega. Tutte le previsioni concordano che, nonostante l’aiuto delle concomitanti amministrative in molti Comuni, anche questi si infrangeranno contro lo scoglio del quorum (vengono accreditati di una partecipazione intorno al 30%). Ormai è un destino generalizzato di questo tipo di consultazioni e direi quasi segnato. In effetti i poveri referendari si trovano contro il fardello di una vasta area di non voto per cui trascinare a votare la metà più 1 degli aventi diritto è un’impresa quasi impossibile. Anche in considerazione che i referenda più “sexy” e comprensibili (fine vita e cannabis), che potevano fare impennare la partecipazione trascinando gli altri, non sono stati ammessi. Va detto in effetti che i 5 referenda ammessi, tutti sul tema Giustizia, sono difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori e certo questo non aiuta. Così impervi ai più che mi sentirei di dire che se davvero la partecipazione arriverà al 30% sarebbe comunque un successo politico per chi propone di votare SI. A maggior ragione tenendo conto dell’assoluta indifferenza dei media al tema, tanto che moltissimi cittadini non sono neppure edotti dell’esistenza della consultazione.
Proprio in considerazione del fatto che i temi sono difficilmente comprensibili, come azione “di servizio” ai lettori, propongo qui di seguito una rapida descrizione dell’oggetto sostanziale di ciascuno dei 5 referenda e della ratio della richiesta dei proponenti aggiungendo per trasparenza la mia opinione personale.
Elezione al Consiglio Superiore della Magistratura
Se vincesse il SI un magistrato che voglia candidarsi a far parte del CSM non dovrà più raccogliere dalle 25 alle 50 firme di magistrati a sostegno della propria candidatura.
La ratio del referendum è semplicissima: togliere alle famigerate “correnti” un fortissimo strumento di controllo delle nomine. La vittoria del SI consentirebbe a un magistrato che ha la “colpa” di non appartenere a nessuna corrente di sottoporsi liberamente al voto dei colleghi forte della sua sola onorabilità, del suo curriculum e del prestigio personale, senza dover elemosinare le firme di sostegno a chicchessia. Sarebbe uno strumento molto forte di indebolimento del meccanismo di lottizzazione tra correnti che oggi impera. Io voterò SI con molta convinzione.
Consigli giudiziari
La vittoria del SI darebbe diritto di voto nel Consiglio Direttivo della Cassazione e nei Consigli Giudiziari anche ai consiglieri “laici” ovvero non togati.
La valutazione dell’operato dei giudici nonché le decisioni inerenti gli avanzamenti di carriera sono affidate (in base al principio dell’”autogoverno”) agli istituti di cui sopra. Entrambi sono composti da giudici (i “togati”) e non, avvocati, professori universitari.. (i “laici”). Oggi solo i consiglieri togati hanno diritto di voto.
La vittoria del SI sanerebbe l’incomprensibile esclusione dei membri non togati dalle decisioni, tenuto conto che trattasi di avvocati e addetti ai lavori che anzi possono contribuire ad una valutazione più completa e obiettiva dell’operato dei magistrati. Ma soprattutto, la vittoria del SI avrebbe un significato di grande portata simbolica: romperebbe quell’aura di autorefenzialità, quella che a molti appare come una concezione proprietaria della giustizia da parte dei giudici. Che non hanno nulla da temere in principio da una platea di valutatori più ampia e non chiusa nel recinto della categoria.
Separazione delle carriere
Il referendum propone la separazione netta delle carriere di Giudice e Pubblico Ministero.
È una vexata quaestio che emerge dalla constatazione che c’è nessuna logica che lo stesso soggetto che giudica, ovvero è arbitro imparziale, possa facilmente “cambiare berretto” e recitare il ruolo di parte in causa come Pubblico Ministero. La figura professionale del giudice deve essere separata e equidistante da quelle dell’avvocato difensore e del pubblico ministero. A garanzia di imparzialità e distacco di giudizio.
Misure cautelari
Limita i casi che consentono la disposizione di misure cautelari escludendo da queste la fattispecie “pericolo di reiterazione del reato”.
È il più complicato da spiegare. Il Codice di Procedura Penale prevede che, nella fase iniziale di un procedimento penale, l’indagato pur non essendo ancora stato giudicato e tanto meno condannato – e quindi tecnicamente innocente – in nome del bene pubblico possa essere soggetto a misure cautelari che sono costrittive (es. carcerazione) o interdittive (es. divieto di esercitare la professione) che ne limitano la libertà personale. La questione sottende evidentemente il tema di principio della contrapposizione tra due ragioni: l’interesse pubblico (di essere tutelato) e quello individuale (di non essere limitato nella sua libertà). La Legge risolve il dilemma prevedendo che in casi ben precisiprevalga l’interesse generale su quello individuale. Fin qui tutto ragionevole: in casi ben precisi si paga un piccolo prezzo (il rischio che un innocente sia limitato nella sua libertà, compreso il carcere) a fronte di un grande beneficio (il diritto della comunità di proteggersi preventivamente). Quali sono i casi ben precisi? Con la premessa che vi siano fondati indizi di colpevolezza, i casi sono quelli in cui vi sia pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e pericolo di commissione di gravi reati (tipicamente omicidi). Tutti questi casi rimarrebbero anche in caso di vittoria del referendum. Il referendum vuole abolire solo l’ultima fattispecie: il pericolo di reiterazione dello stesso reato (anche se amministrativo).
La ratio della richiesta è di evitare l’abuso di questa fattispecie che può essere invocata quasi sempre (tipicamente per amministratori pubblici) e con molta discrezionalità (molto facile che sia teoricamente possibile reiterare il reato). È un’arma molto efficace per colpire bersagli nel mondo politico e soprattutto se ne è dimostrato empiricamente l’abuso in passato: c’è un vastissimo florilegio di casi di persone distrutte nella persona e nell’immagine pubblica che poi si sono alla prova dei fatti rivelate innocenti. Oltretutto lo Stato deve (giustamente) risarcire coloro ingiustamente carcerati per cui la vittoria del referendum comporterebbe anche un non insignificante risparmio di denaro pubblico. Da votare SI senza se e senza ma.
Legge Severino
Il referendum contesta l’automatismo, previsto appunto dalla Legge Severino, che esclude chi è condannato in primo grado per determinati reati particolarmente efferati o contro la Pubblica Amministrazione dalla candidabilità a cariche elettive e di Governo e lo fa automaticamente decadere dalla carica se in essere.
L’argomento che portano i fautori del SI è che la legge Severino si applica a chi è condannato anche solo in primo grado mentre è elevatissima la percentuale di sentenze ribaltate in Appello e quindi rischia di applicare una mannaia a molti innocenti. Particolarmente intrigante è il caso dei Sindaci, che per la natura del loro incarico possono facilmente trovarsi condannati per un reato contro la PA. In questo caso un Sindaco decade automaticamente dalla carica anche se poi in Appello dimostra la sua innocenza.
Personalmente, dei 5, è l’unico referendum su cui ho molti dubbi a votare SI.
(l’articolo è ripreso dalla rivista on line Luminosi Giorni. Contrariamente al solito si pubblica integralmente per non interrompere la spiegazione dei quesiti)
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