Alcuni mesi fa dagli amici toscani di “Solo Riformisti” mi venne la proposta di promuovere, sull’asse Firenze Venezia, un convegno che riproponesse i temi dei diritti negati e degli spazi più o meno angusti di libertà nel mondo, riesumando l’indovinata formula, del 1977, della Biennale del Dissenso nei paesi dell’est Europa (ben prima del crollo del muro). La loro proposta fu per me, come si dice, una folgorazione. Perché in due parole avevano messo sul piatto qualcosa che mi frullava da tempo per la testa. In effetti mi ero completamente scordato di quell’evento, a cui per altro avevo partecipato attivamente, come modello di un nuovo evento sul tema, che purtroppo non smette mai di essere attuale.
Da quella biennale del Dissenso sono passati ormai 45 anni , ma probabilmente c’è chi ha buona memoria più di me e ricorda il successo, faticoso e non scontato, di quella iniziativa. Si era trattato allora, attraverso un ente prestigioso come la Biennale veneziana, di creare un evento di alto valore etico, culturale e politico, come il dar voce a chi, intellettuali, artisti, politici, cittadini, nei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’ si opponeva a regimi liberticidi che avevano cercato di applicare alla lettera la follia marxista della ‘dittatura del proletariato’. Ho detto “successo faticoso” perché, incredibilmente, nella cosiddetta sinistra di allora l’evento venne interpretato come, secondo il lessico venuto poi di moda, ‘divisivo’. Fu fortemente voluto da un PSI che da poco aveva rimarcato la sua linea ‘autonomista’ e in particolare dal Presidente della Biennale di allora il socialista Carlo Ripa di Meana. E, incredibilmente, il PCI, che ormai da un decennio aveva preso distanze definitive dal modello dell’est e stava per entrare nell’area di governo in Italia, quasi come riflesso ‘pavloviano’ l’aveva presa in modo freddo, marcando la distanza e non coinvolgendosi. Lo stesso dicasi per la Nuova Sinistra di matrice sessantottina con l’eccezione, lodevole e forse non casuale, ma isolata, del quotidiano Il Manifesto, pur restio a coinvolgersi del tutto. E più di tutti, a contestare e contrastare l’evento, la consueta catena di intellettuali di sinistra, allora un ceto potente, dominante ed egemone sulla cultura tutta, tra cui, spiace ricordarlo, pare vi fossero anche artisti veneziani come Luigi Nono ed Emilio Vedova che si erano accodati (riporto quel che ho letto in una cronaca del tempo, perché in effetti questi nomi personalmente non li ricordavo).
Nel frattempo, è cambiato il mondo, il muro è crollato e i regimi dell’est sono evaporati, squagliati come neve al sole. Tutta la sinistra ha ormai metabolizzato e però per fortuna non rimosso l’equivoco storico tra libertà e uguaglianza in cui era caduta. Oggi farebbe sicuramente altre scelte.
Il muro è caduto, ma ciò che politicamente e istituzionalmente ha sostituito quei regimi in realtà non è molto migliore di loro e si vede che al di là di una certa longitudine c’è una predisposizione storica al populismo, all’autoritarismo, in alcuni casi all’imperialismo e alla negazione del pluralismo culturale interno. Gli esempi sono sin troppo noti e l’attualità dell’azione della Russia in queste settimane parla da sé. Si sa che con rare eccezioni nell’est europeo si sono sostituiti sistemi politici che, pur con forme diverse dai regimi totalitari d’impronta comunista, hanno finito per perpetuare con parvenze di democrazia parlamentare, una medesima tendenza alla negazione dei diritti per i propri cittadini e per chi proviene dall’esterno come migrante. Per questi, che volutamente chiamo ‘regimi’, anche l’Europa, a cui quasi tutti appartengono, assume una parvenza di integrazione, di cui, per tacitare l’opinione pubblica, non potevano fare a meno, ma le cui regole alcuni stati sistematicamente disattendono.
A questo proposito giova ricordare la fermezza europeista di un uomo, di un politico che ci ha da poco lasciato, Davide Sassoli, che interpretava alla perfezione l’Europa che vogliamo. Non più tardi di sette mesi fa Davide Sassoli batteva il pugno sul tavolo di fronte a leggi interne a Polonia e Ungheria, dissonanti nel senso di negazione di libertà rispetto alla legislazione europea. E ancor di più dissonanti nella politica della loro non-accoglienza dei migranti verso i quali attuavano, e attuano, una odiosa politica di respingimento violento. Sassoli la fermezza la interpretava con queste lineari parole, registrate in sua intervista all’Espresso: “Il diritto europeo prevale su quello nazionale: Ungheria e Polonia devono rispettarlo». Punto. Con la complementare proposta di abolire finalmente l’immobilista principio dell’unanimità nel Consiglio Europeo. Altro punto.
Questo all’est.
In realtà noi dobbiamo registrare il fatto che in tutto il pianeta Terra sono numerosissimi i casi di Stati in cui vengono negate libertà e diritti, sia ai propri cittadini, meglio si direbbe sudditi, e sia agli stranieri che hanno avuto l’avventura e la buona fede di metterci piede. E i casi Regeni e Zaki sono lì a dimostrarcelo con chiarezza a cui aggiungerei il caso di un nostro concittadino, Marco Zennaro, fermato da mesi in Sudan e colpevolmente dimenticato persino dalla nostra stampa nazionale.
La lista delle satrapie autoritarie sarebbe lunghissima. Le chiamo così per l’evidente analogia con i satrapi di ellenistica memoria, che facevano e disfacevano nei loro dominii alla periferia dell’impero. È doveroso in questo caso evitare di fare di ogni erba un fascio, che anziché farci comprendere le ignobili violazioni dei diritti più elementari, creerebbero una cortina fumogena che non ci farebbe distinguere nulla. Tuttavia, sicuramente tutti questi casi hanno un qualcosa in comune: la tendenza a negare o a limitare il pieno manifestarsi di uno Stato di Diritto moderno, che è una delle acquisizioni ormai irrinunciabili che la nostra epoca, Europa in testa, ha acquisito con fatica dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, con la coda postuma delle guerre balcaniche.
A creare imbarazzo e ostacolo alla piena coscienza dell’importanza universale dello Stato di Diritto in una fase, sperabilmente superata ma solo di recente, ci si è messo un certo complesso di colpa europeo/occidentale e un certo peloso distinguo da parte della cultura politica di una parte della sinistra europea, sempre preoccupata di non avvallare le culture democratiche che, secondo una certa logica, convivono con il nemico capitalista. Ora io non so esattamente, anche se credo di intuirlo, che cosa si nasconda dietro all’ipocrisia della frase “non si può esportare la democrazia”, spesso venduta come esigenza di pluralismo, che è invece esigenza di fiero antioccidentalismo. Non mi addentro a capire quale democrazia non si può esportare, perché la democrazia è un sistema complesso dalle mille interpretazioni, a volte solo cornice formalistica che infatti le satrapie liberticide adottano facilmente per avvallare i loro regimi, non diversamente da come Mussolini e Hitler erano andati al potere democraticamente (e Stalin con rivoluzioni che si dicevano ispirate a democrazie popolari). Poi ben si sa che il dispiegarsi ‘democratico’, soprattutto in Italia, di pletoriche regole e metodi e pesi e contrappesi e diritti di veto concessi fino all’ultimo comitato di strada, hanno fatto della democrazia una sua negazione fattuale. Infine, molte satrapie liberticide, lo ripeto, non hanno difficoltà a darsi parvenze di legittimazioni elettorali pseudo democratiche.
(il resto dell’articolo è possibile leggerlo su www.luminosigiorni.it)
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