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Campagna vaccinale: salvare vite o riaccendere l’economia?

Per ora nulla assicura che i vaccinati, oltre ad assicurare a sé stessi una protezione dalla malattia, non contagino gli altri. Se questo fosse il caso, potremmo persino assistere, nei prossimi mesi, a un ulteriore aumento (o mancata riduzione) dei morti.

7 Aprile 2021 da Luca Ricolfi Lascia un commento

Il primo problema dell’Italia, sul versante sanitario, è che nonostante i notevoli progressi delle ultime settimane la campagna di vaccinazione arranca. E la notizia di ieri, secondo cui Johnson & Johnson dovrà buttare alle ortiche 15 milioni di dosi (per un incredibile errore commesso negli Stati Uniti), non fa che aggravare il quadro. L’ottimismo della volontà ci fa sperare che nei mesi prossimi tutto si aggiusti, ma i dati della campagna vaccinale suggeriscono che, quest’estate, il numero di vaccinati si aggirerà intorno al 50% della popolazione italiana, e non al 70 o 80% come tutti auspichiamo.

Che succederà, a quel punto? Possiamo sperare che, almeno, il numero di morti, che oggi sono circa 450 al giorno, non dico si azzeri, ma scenda a un livello molto più basso? Stiamo facendo tutto il possibile per arrivare a questo risultato minimale?

No, non stiamo facendo tutto il possibile, né nell’immediato, né in prospettiva.

Nell’immediato, stiamo commettendo l’errore più grosso che si può concepire: lasciare indietro gli anziani, che contribuiscono al 90% della mortalità. Sembra incredibile, ma ancora oggi – dopo la somministrazione di circa 11 milioni di dosi – quasi la metà degli over-75 (che sono circa 7 milioni) non è ancora vaccinata, e solo 1 su 5 ha ricevuto entrambe le dosi. In compenso sono stati vaccinati (oltre a medici, infermieri e persone fragili, com’era giusto) ogni sorta di categorie: professori, magistrati, avvocati, giornalisti, personale amministrativo degli ospedali, insieme a legioni di parenti, infiltrati, passanti. E, come spesso accade in Italia, l’indignazione si è scaricata sui singoli “furbetti del vaccino” anziché sulle Regioni che hanno gestito arbitrariamente le dosi, e sul Governo che avrebbe dovuto imporre linee guida tassative e vincolanti: se le istituzioni facessero il loro dovere, con ordine e con serietà, a nessun furbetto sarebbe possibile approfittare della confusione per saltare la fila. Né le cose sono destinate a migliorare a breve, visto che la vaccinazione sui luoghi di lavoro (che pure ha una sua logica, se non altro organizzativa), finché le dosi scarseggeranno non potrà che ritardare ulteriormente la copertura completa dei segmenti vulnerabili della popolazione.

Con questo non voglio certo dire che il continuo aumento dei morti osservato nelle ultime 5 settimane sia colpa delle follie della campagna vaccinale. Se ai primi di marzo avevamo 270 morti al giorno e oggi ne abbiamo 450 è perché per mesi e mesi abbiamo giocato ai 4 colori, baloccandoci nell’ingenua illusione che lo stop and go ci avrebbe permesso di convivere con il virus. Ma è proprio perché quasi nulla di incisivo si è fatto per fermare la circolazione del virus che la carta di una vaccinazione ultra-tempestiva e ultra-selettiva degli anziani non doveva essere sprecata.

Né le cose appaiono più confortanti in prospettiva. La corsa all’accaparramento del vaccino, cui partecipa con entusiasmo la popolazione non anziana, punta dritto alla nobile meta delle “vacanze serene”, non certo al prosaico obiettivo di fermare l’ecatombe di anziani. Di qui l’attesa messianica del passaporto vaccinale, italiano o europeo che sia: l’idea è che, una volta vaccinati, si possa tornare a una vita quasi normale, con conseguente allentamento di restrizioni e limitazioni che metterebbero a repentaglio le lunghe (peraltro meritatissime) vacanze estive. Vista da un marziano, che giudicasse solo dai fatti e non dalle intenzioni, la campagna vaccinale italiana – con la sua dimenticanza per gli anziani e la sua attenzione ad assicurare la mobilità di produttori e consumatori – non somiglia a uno sforzo titanico per ridurre i decessi, ma a una macchina per riaccendere l’economia.

Ma c’è un equivoco: per ora nulla assicura che i vaccinati, oltre ad assicurare a sé stessi una protezione dalla malattia, non contagino gli altri. Detto in termini un po’ tecnici, un vaccino può benissimo essere molto ‘efficace’ (nel proteggere dal virus) e al tempo stesso poco ‘efficiente’ (nel bloccare la trasmissione). Se questo fosse il caso, potremmo persino assistere, nei prossimi mesi, a un ulteriore aumento (o mancata riduzione) dei morti in quanto sarebbero i vaccinati stessi, grazie al falso senso di sicurezza indotto dalla vaccinazione, a favorire la circolazione del virus. E molto mi sorprende che questo interrogativo (i vaccini bloccano la trasmissione oppure no?), sia quasi del tutto espunto dal dibattito pubblico, come se si trattasse di un’eventualità che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione.

E non è tutto. Come hanno talora, più o meno cripticamente, avvertito diversi esperti, l’eventualità che i vaccini non siano sterilizzanti (ossia capaci di bloccare la replicazione e la trasmissione) rende particolarmente insidioso il rischio che la vaccinazione di massa, attuata senza aver prima abbattuto la circolazione del virus, favorisca la formazione di nuove varianti, più trasmissibili e/o più resistenti ai vaccini.

Ed eccoci a un’altra cosa che non stiamo ancora facendo in misura adeguata: potenziare la capacità di sequenziamento dei laboratori italiani. Avere una elevata (e tempestiva) capacità di sequenziamento, infatti, potrebbe diventare il nostro principale strumento di difesa se, il prossimo autunno, dovessero emergere varianti ancora più trasmissibili di quelle attualmente più diffuse in Italia (inglese, brasiliana, sudafricana). A quel punto, non potendo bloccare per l’ennesima volta un intero paese, la nostra unica arma di difesa (a parte nuovi vaccini, che richiedono tempo) diventerebbe l’isolamento tempestivo e totale delle zone in cui emergono le varianti più pericolose.

Viste da questa angolatura, le discussioni attuali sulle riaperture, che qualcuno vorrebbe rimandare a maggio, altri anticipare ad aprile “se i dati miglioreranno”, appaiono completamente fuori strada. Se una cosa è certa, perché ce la insegna l’esperienza degli altri paesi, è che i dati non potranno migliorare in modo apprezzabile prima di un mese o due, e che anche solo l’obiettivo minimale di avere meno di 100 morti al giorno richiede parecchio tempo, o sacrifici che quasi nessuno è disposto a fare, meno che mai con la bella stagione alle porte. Raggiunto il picco dei contagi, nessun paese è riuscito a dimezzarli in meno di un mese. Ma, al tempo stesso, non mancano i paesi che, intervenendo al momento giusto con la necessaria energia, sono riusciti ad abbattere il numero dei casi di oltre il 90% in meno di 2 mesi, a dispetto delle varianti e senza l’aiuto della vaccinazione di massa (in Europa, ad esempio, Irlanda, Portogallo, Danimarca, Islanda).

Ecco perché, a mio parere, la domanda se i dati siano in miglioramento o meno è futile e fuorviante. La vera domanda è: abbiamo quasi 500 morti al giorno, di quanto li vogliamo ridurre prima di riaprire tutto o quasi?

Ma a questa domanda nessuno ha voglia di rispondere.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 aprile 2021

(questo articolo è ripreso, su autorizzazione del blog, dal sito www.fondazionehume.it)

 

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