L’attualità di Amendola non può essere ricercata nella validità di tutto il suo pensiero, delle sue concezioni e della sua azione, che sono da considerare per molti versi superati o non più proponibili, ma va riscoperta, dando risalto a una complessità della sua personalità, alla multiformità di aspetti della sua natura, a un’indole che non può essere compresa con schemi abitudinari di classificazione. Bisogna, cioè, andare più a fondo nell’analisi, non fermarsi ai dati più evidenti e riconosciuti, ma scavare in una vicenda in cui hanno pari valore “passione e ragione”, si fondono biografia e storia.
Amendola oggi ci parla per quello che è stato, un uomo immerso nel suo tempo, per il quale le idee non potevano mai essere distinte dai comportamenti, anzi si completavano nell’iniziativa concreta; un uomo proteso con tutte le sue forze nell’impegno per migliorare le cose, per il quale l’insegnamento paterno significò soprattutto “la volontà è il bene”; un politico anticonformista e severo, ma anche uno studioso di storia ed economia, un meridionalista.
La sua originalità è dimostrata, oltre che dai valori e dalle certezze di cui si fece intransigente e, spesso, irruento propugnatore, anche dai quesiti irrisolti che la sua ricchissima esperienza ci ha lasciato, dai temi di una riflessione, in molti casi, avviata e non conclusa, dalle intuizioni che non potevano conoscere uno sviluppo compiuto all’interno di un binomio di ideali dimostratisi antitetici tra loro. Amendola, pur essendo un comunista “scomodo” e un convinto assertore della necessità che “qualsiasi disegno di sviluppo, anche il più radicalmente innovativo, dovesse presentare condizioni di applicabilità e sostenibilità, non potesse sfuggire a una scelta di priorità e a una verifica di compatibilità”, certamente non fu un riformista, nel senso pieno che viene assegnato al termine, perché il limite di restare nella tradizione comunista – sia pure della destra comunista – non gli consentì di distinguere tra socialismo e comunismo: fu un comunista che affondava le proprie radici nell’esperienza liberaldemocratica e che non rinnegò mai questa sua collocazione originale, in lui più forte, ma tipica del Pci e del suo gruppo dirigente. Il fatto di muoversi in un determinato orizzonte non poteva contenere un’evoluzione piena, uno sviluppo fecondo delle intuizioni più audaci e innovative del suo pensiero.
Il meridionalismo di Amendola non fu un orientamento approssimativo e generico: egli, partendo da “una certa tradizione di storicismo meridionale, di liberalismo classico filtrato dall’ideologia dell’antifascismo”, arrivò a definire la grande questione nazionale rappresentata dal Mezzogiorno, come un singolare intreccio di vecchie contraddizioni e nuove opportunità. Amendola, infatti, ricordava che: “Il problema del Mezzogiorno non è un problema di beneficenza per parenti poveri, è un problema nazionale d’interesse comune”; pronto, al tempo stesso, a rilevare che vi era “l’altro pericolo, opposto, di una nuova retorica meridionale, per cui il Mezzogiorno appare come la bella addormentata che ad un certo punto si è risvegliata ed ha iniziato la sua facile marcia”.
La sua opera ebbe il significato di uno sforzo rigoroso di studio e di ricerca delle cause del divario meridionale, di una eccezionale iniziativa di educazione e di mobilitazione delle popolazioni del Mezzogiorno, per renderle coscienti del loro stato, della necessità di una radicale trasformazione, che solo con la loro discesa in campo si sarebbe potuta realizzare. In questo modo, Amendola si legava alle migliori radici del meridionalismo “classico”, quello lontano dalle inutili lamentazioni e dallo sterile rivendicazionismo, portandolo verso una prospettiva in cui le istanze di libertà e di cambiamento venivano semplicemente trasferite alla classe operaia e alle forze ad essa alleate.
Di fronte ai profondi processi di trasformazione in atto, la linea prescelta non poteva essere quella di puntare sull’agricoltura come volano dello sviluppo meridionale, ma si doveva mettere al primo posto la questione dell’industrializzazione del Sud. Amendola non lo capì, non riuscì a superare quel peccato originale, il vizio di considerare il mondo contadino al centro della questione meridionale, che lo costringeva a una inconsapevole contraddizione e non gli permetteva di liberare tutte le sue energie creative. Egli stesso – anche se non si trattava solo di problemi di elaborazione –
descriveva efficacemente un limite di fondo, che non derivava da incapacità soggettive e che, però, vincolava, comprimeva potenzialità, che così rimanevano inespresse: “È evidente che c’era in tutti noi la coscienza di una inadeguatezza della nostra elaborazione teorica di fronte ai grandi problemi posti dal capitalismo moderno. Ma da questa constatazione non derivava meccanicamente la capacità di sapere poi compiere questa elaborazione”.
Contrariamente alle sue previsioni, la crescita del Mezzogiorno si incamminava lungo la via dell’industrializzazione. Rispetto a questa concreta prospettiva, la linea prescelta non poteva essere quella di puntare sull’agricoltura come volano dello sviluppo meridionale, ma si sarebbe dovuto mettere al primo posto la questione della modernizzazione produttiva del Sud, in un contesto nel quale si intrecciavano i temi dello sviluppo e delle compatibilità, le questioni della lotta all’inflazione, delle riforme e della programmazione, dei sacrifici necessari. Il Mezzogiorno era cambiato e non rappresentava più quella che aveva definito una “grande disgregazione sociale e politica”, ma mostrava ampie zone di progresso, accanto ad aree arretrate e stagnanti; questo fatto, al contrario, appariva chiaro ad Amendola, che notava: “Il movimento operaio, ed anche il nostro partito, attardato su una visione catastrofica dell’economia italiana e mondiale, si accorse in ritardo del mutamento di congiuntura e della crescente differenziazione che si andava operando tra punte di industrializzazione avanzata e larghe zone di capitalismo attardato”.
Partendo da questa convinzione, Amendola sosteneva la necessità di considerare del tutto intrecciati i destini del Nord e del Sud, operando scelte coerenti di politica economica, in grado di scongiurare un’ulteriore penalizzazione delle regioni meridionali e di avviare il superamento di tutti i divari; infatti, egli affermava che: “A sud rischierebbero di rimanere solo le briciole, se non sapremo inserire la domanda di investimenti nel sud in una domanda generale che parta anche dalle esigenze del nord. Quindi, certe venature un pò antinordiste, che si sentono anche in certi interventi, a mio avviso non sono utili perché noi sappiamo bene che la nostra causa è strettamente legata alla causa del nord”.
Amendola, con maggiore insistenza nel corso degli ultimi anni, tornava spesso sull’esigenza di non cedere ai particolarismi, di superare ogni forma di corporativismo nell’ottica di un interesse nazionale, di considerare l’interesse generale un principio guida per le forze che aspiravano a dirigere il paese. Egli, infatti, sottolineava come l’individualismo senza regole, il disimpegno collettivo, la furbizia e il personalismo non fossero altro che “una eredità del vecchio particularismo italiano, il vecchio particulare guicciardiniano: ciascuno pensi ai fatti suoi” e come il “mancato rispetto dell’interesse generale” rappresentasse “una parte della vecchia eredità che il fascismo ha rivelato”.
Una scelta di politica economica, che certamente esprimeva un interesse generale, era quella della lotta all’inflazione, uno dei temi più ricorrenti nelle “polemiche fuori tempo” di Giorgio Amendola. Come è stato scritto: “La sua polemica degli ultimi tempi sull’impegno con cui il movimento operaio doveva far propria la lotta contro l’inflazione e la preoccupazione per il risanamento della finanza pubblica” era un aspetto essenziale “dell’azione per la difesa della democrazia”; ma, riguardava anche l’iniziativa per la tutela degli strati sociali più colpiti e per il progresso del Mezzogiorno, la parte del paese che pagava più duramente le conseguenze del rincaro dei prezzi.
Infatti, Amendola notava che: “L’inflazione, che non consente tempi lunghi, è un processo logorante, acceleratore, divoratore di equilibri”; affermando “l’esigenza di una lotta coerente contro l’inflazione, come premessa e condizione di una politica di sviluppo”. E, perché questa lotta servisse “per aiutare il Mezzogiorno, i disoccupati (reali e non fasulli), le donne ed i giovani”, non era possibile “sostenere le richieste di un massimalismo corporativo avanzato da categorie più forti, che hanno conquistato aumenti salariali superiori al tasso d’inflazione”; perciò: “Non si può dire a tutti di sì, bisogna scegliere”.
Era questa la ragione che lo portava a parlare di “sacrifici”, della necessità che la classe operaia, se intendeva veramente esercitare una funzione nazionale e sollevare le sorti del Mezzogiorno, si facesse carico del miglioramento della situazione economica del paese. Ed era per questo motivo che non si scandalizzava ad affrontare i temi della “mobilità” dei lavoratori e della chiusura delle fabbriche dissestate, consapevole che si trattava di un versante importante dell’iniziativa per il Mezzogiorno: “C’è […] un problema urgente che ci obbliga a ripensare e a riproporre in termini nuovi la questione meridionale. Perché se tutte le risorse dello Stato dovessero essere assorbite dai salvataggi e non impiegate nella riconversione generale dell’apparato produttivo, – che esige mobilità dei lavoratori ed anche chiusura di certe fabbriche (non si può difendere tutto com’è oggi, perché tutto quello che è oggi in Italia è il frutto di un tipo di espansione che noi abbiamo criticato sempre e che si è realizzato a spese del Mezzogiorno), – ebbene inchioderemmo il Mezzogiorno alle vecchie condizioni, anzi gli faremmo pagare le spese di questi salvataggi”.
Per realizzare una fase diversa dello sviluppo dell’Italia e del Mezzogiorno, le scelte economiche che si rendevano necessarie dovevano essere inquadrate in una politica di riforme e di programmazione. Amendola sosteneva che: “Riforme di struttura e programmazione democratica sono dunque gli strumenti necessari per dare una risposta ai problemi che travagliano il paese”. Infatti: “La battaglia del progresso del Mezzogiorno si vince sul terreno della programmazione, affermando […] un’alternativa democratica di sviluppo economico, fondato sulle riforme di struttura e soprattutto sulla soluzione della questione meridionale […], in modo da portare ad un aumento generale della produttività”. In questo modo, era chiaro “il valore di rottura delle riforme, il loro carattere dinamico”, e appariva indiscutibile la valenza meridionalistica di una politica di programmazione nazionale, in grado di orientare gli investimenti verso il Mezzogiorno.
Tuttavia, per Amendola, questa impostazione non significava la riproposizione di temi del passato, una visione ormai ossificata delle riforme di “struttura” e della “pianificazione”, ma voleva dire avanzare idee più aggiornate, nel tentativo di fornire risposte ai principali problemi delle regioni meridionali e del paese. Da un lato, non era ammissibile un “contrasto tra una politica di rinnovamento strutturale a lungo termine, e le misure a breve che si debbono prendere subito”; dall’altro, bisognava combattere “le illusioni dirigiste e pianificatrici, […] presenti anche a sinistra”, sapendo che “la politica di programmazione democratica è un metodo, più che uno schema”. In ogni caso, senza dimenticare i limiti della sua concezione, bisogna riconoscere che, su questo terreno, Amendola era più avanti degli altri dirigenti comunisti: la sua era un’affermazione, in termini più aperti, della necessità di una politica di programmazione e di riforme, “una politica conseguentemente meridionalistica”, senza la quale “gli squilibri sociali e regionali” si sarebbero pericolosamente aggravati e il Mezzogiorno sarebbe stato condannato ad una condizione permanente di arretratezza”.
Questi temi rappresentano il modo tipico di Amendola di porre il principio fondamentale dell’interesse generale, attraverso cui la battaglia per il Mezzogiorno acquista davvero un respiro nazionale. In questo periodo, sia pure per vaghi accenni, aveva iniziato a porsi anche il problema della crescita del mercato nel Sud, considerando “la politica degli incentivi” come “una via che non ha permesso quella promozione di ceti produttivi che nel Mezzogiorno mancano”; in alternativa a quella scelta, riteneva necessaria “una promozione sana che nasce dalla concorrenza, dalla competitività della lotta, dallo sforzo, dal rischio”, nella consapevolezza che “[…) quando si offre una possibilità di ascesa sociale, di arricchimento per una strada non professionale, ma speculativa, si disperdono energie che potevano orientarsi in un altro senso piuttosto che verso il vicolo cieco del parassitismo […], che poi assume in certe parti del Mezzogiorno anche carattere mafioso e camorristico. E voi conoscete questa triste pagina della nostra storia”. Anche qui veniva solo sfiorato un tema che, invece, si dimostra sempre più essenziale per colmare i ritardi e favorire l’integrazione del Sud dell’Italia nel quadro europeo.
L’esperienza di Amendola, dunque, è una testimonianza, al tempo stesso, dei pregi e dei valori, ma anche dei molti limiti della sinistra italiana, del Pci, come delle forze che lo hanno sostituito. Proprio alcune delle sue riflessioni, oltre che la sua vicenda personale, ci aiutano comprendere perché il riformismo in Italia sia stato così debole. Il fatto di trovarsi di fronte ad un capitalismo “dal cuore antico”, che non impiegava le risorse di un’intera parte del paese, conservandolo in una condizione di arretratezza, acuiva le contraddizioni, spostava su un piano primitivo i conflitti e il confronto tra le diverse forze sociali. Tutto ciò pesava non poco sulle scelte politiche, ma, naturalmente, non erano secondari i difetti soggettivi della sinistra, l’incapacità di uscire da un orizzonte chiuso, di superare lo schema ideologico predominante.
La “lezione” di Amendola, il suo meridionalismo, possono rappresentare ancora oggi un patrimonio di grande interesse, solo, però, in questa consapevolezza di una ricerca critica, nella comprensione di quella “tensione irrisolta” tra le sue intuizioni innovative e una visione del mondo dimostratasi errata.
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