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Amendola e Israele

Nel giugno del 1967, dopo un intervento in Direzione, Amendola preferì tacere per tutta la durata del conflitto arabo israeliano e il suo silenzio fu eloquente più di tanti interventi.

4 Giugno 2020 da Valentino Baldacci Lascia un commento

La guerra dei Sei giorni, combattuta su tre fronti tra il 5 e l’11 giugno 1967  fu decisiva non solo perché segnò un punto di non ritorno nei rapporti tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi, mettendo il primo nella condizione di guardare al futuro senza la minaccia imminente della sua distruzione che era l’obiettivo del Rais Nasser, ma anche perché obbligò in Occidenti partiti, uomini politici, intellettuali a definire la looo posizione di fronte al conflitto arabo israeliano.

Questa necessità di precisare la propria posizione fu particolarmente lacerante a sinistra, perché vide nettamente contrapposti Partito comunista e Partito socialista unificato: i comunisti confermarono la loro strutturale dipendenza dall’URSS che aveva sostenuto Nasser e i Paesi arabi; i socialisti al contrario difesero le ragioni di Israele, aggredito una volta di più dalla coalizione di tre Paesi confinanti, che non nascondevano, soprattutto l’Egitto, la loro intenzione di farla finita con il nemico sionista.

Il PCI, come abbiamo detto, si schierò a favore dei Paesi arabi, seguendo la linea strategica dell’URSS e anche una propria politica di sostegno ai movimenti del Terzo Mondo che si riteneva essere portatori di istanze antimperialiste. A livello ufficiale è difficile trovare incrinature in questa posizione. Lo stesso Umberto Terracini, che pure aveva sempre difeso il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele e che stava conducendo una coraggiosa battaglia in difesa degli ebrei che vivevano nell’Unione Sovietica, tuttavia sostenne anch’egli la tesi che era astato Israele l’aggressore. Se ci fu in campo comunista una voce dissenziente fu quella di Fausto Coen, direttore de “Il Paese”, che il 5 luglio fu brutalmente defenestrato dal suo incarico perché aveva raccontato i fatti nella loro realtà.

Per trovare sfumature nell’atteggiamento degli esponenti del Pci bisogna perciò guardare al linguaggio usato e qui emergono effettivamente diversità fi accenti che nascondono differenze di posizioni politiche: di fronte alle espressioni usate da Longo, da Pajetta, da Ingrao, da Emilio Sereni – che fu incaricato, non a caso, di portare in Parlamento la posizione del PCI e che Spadolini definì “l’ebreo cui la macchina del partito affida i compiti più vergognosi, nello stile del più squallido stalinismo” – ma anche da Entico Berlinguer. Conviene dunque andare a vedere, sia pure, per accenni, che cosa dissero i maggiori dirigenti del Pci. Longo affermò in un’intervista: “Noi consideriamo una vera e propria provocazione di tipo razzista e colonialista la campagna che molti organi di stampa e anche numerosi esponenti di partiti governativi, tra cui anche esponenti socialisti, hanno scatenato in questi giorni contro i popoli arabi”. L’accusa di “razzismo” si indirizzava così non soltanto verso la stampa ma anche verso i socialisti, rei di sostenere lo Stato d’Israele. Secondo Pajetta, che intervenne numerose volte sulla stampa e in Parlamento, dopo aver sostenuto che Israele si era costituito per volontà della grandi potenze, ignorando così il lungo travaglio del sionismo che era iniziato alla fune del XIX secolo, scriveva che Il gruppo dirigente israeliano, formato allora esponenti del Partito laburista, “si è già dimostrato più di una volta incline all’avventura, all’esasperazione sionistica”, dove il termine “sionismo” acquista una valenza negativa, come facevano e faranno gli esponenti arabi e islamici più estremisti. Ingrao usò un’espressione che divenne stereotipata nel linguaggio del PCI: “liquidare le conseguenze dell’aggressione israeliana”, che significava il ritiro senza condizioni dell’esercito israeliano dai territori occupati, senza rimuovere le cause che avevano provocato la guerra. Secondo Berlinguer “una torbida e irresponsabile campagna oltranzista (che) è in atto per tentare di coinvolgere in un modo o in un altro l’Italia nel confitto”.

Diverse furono i toni e anche i contenuti degli interventi di Amendola e di Napolitano in quei giorni del giugno 1967. Secondo lo stile comunista di coinvolgere nelle situazioni difficili le figure che si riteneva fossero meno “ortodosse”, con l’evidente scopo di ““comprometterle”, a Napolitano fu affidato il compito di tenere la relazione introduttiva della riunione del comitato centrale sulla politica estera. Napolitano non poté naturalmente esimersi dal far sua la posizione ufficiale del Partito sul conflitto arabo-israeliano ma trovò il modo di inserire nel suo intervento l’affermazione che “sbagliati e dannosi si sono dimostrati, come oggi si comincia riconoscere, determinati atteggiamenti e parole d’ordine nei confronti di Israele”. Ma quei comportamenti e quelle parole d’ordine nei confronti di Israele, di considerarlo cioè un paese aggressivo, violento, imperialista, razzista e via elencando, erano proprio quelle che erano state diffuse dai maggiori esponenti del Partito.

Infine Amendola, che intervenne una sola volta, il giorno stesso dello scoppio del conflitto. Sostenne che “non si tratta di essere equidistanti tra le due parti” ma di fronte al popolo d’Israele, “in nome della strenua lotta condotta contro ogni forma di antisemitismo e dai comuni sacrifici compiuti nella Resistenza”, affermava che “il suo avvenire dipende dalla possibilità, che esiste, di trovare una forma di collaborazione con il movimento di liberazione dei popoli arabi”. Se Amendola si sbagliava, come tutti i dirigenti comunisti, nel definire “movimenti di liberazione” le dittature militari di Nasser, di Assad,

tuttavia il suo invito ad una possibile intesa veniva espresso in termini ben diversi da quello degli altri esponenti comunisti, come pure significativo era il richiamo alla lotta contro l’antisemitismo e quello della comune lotta durante la Resistenza. Ma forse il modo più significativo con il quale Amendola espresse la sua posizione sul conflitto arabo-israeliano fu il silenzio che egli conservò, dopo questo intervento, per tutta la durata del conflitto e anche dopo. Esprimersi significava inevitabilmente allinearsi alle posizioni ufficiali del Partito, limitandosi eventualmente a inserire qualche larvata critica, come aveva fatto Napolitano. Il pensiero e il temperamento di Amendola gli impediva di usare queste forme di nicodemismo. Preferì tacere e il suo silenzio fu eloquente più di tanti interventi.

 

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