Si può dire che Napoli è ritornata alla normalità dopo anni di fuochi d’artificio verbali, di annunci roboanti?
Normalità è parola ambigua, scivolosa, può essere accolta con sollievo da chi ha scampato un pericolo, può essere detestata da chi ama l’avventura. «Quelli che conoscono la tempesta si annoiano con la bonaccia», diceva Dorothy Parker, notoriamente una snob. Napoli non è una città snob e neppure una città normale. Ma la domanda da farsi è se i napoletani la vogliano davvero, la normalità, o se invece si siano ormai abituati a farne a meno (e magari qualcuno sfrutti la situazione per i propri affari). Certo è che pochi tra coloro che la abitano definirebbero normale la loro città e pochi, tuttavia, ne darebbero un giudizio spassionato. Perché Napoli rimane intrappolata fra narcisismo ed eccezionalismo.
In quali termini si può definire l’eccezionalismo di Napoli?
È bastato che Alberto Angela dedicasse un lungo reportage televisivo alle sue glorie e subito in città è montata l’onda dell’orgoglio, l’autocompiacimento, la tendenza a guardare in modo compulsivo la propria immagine allo specchio e dunque l’incapacità di misurarsi dentro contesti più ampi, di paragonarsi ad altre realtà, di emanciparsi dal solito, mai morto paradigma dell’eccezionalismo. Napoli non è normale perché è eccezionale, si pensa.
Codesta incapacità di misurarsi in contesti più ampi non è una esclusiva solo di Napoli, penso, per fare un esempio, a Firenze, imprigionata nel proprio passato. Ma in cosa è negativa questa rappresentazione della città?
A una simile autorappresentazione della città sfugge il carattere complesso della sua storia. Manca una riflessione critica su alcune stagioni che pure, a buon titolo, possono ritenersi eccezionali. Come gli anni Cinquanta-Sessanta della furiosa cementificazione laurino-democristiana delle sue meravigliose colline. Quale altra città italiana ha sperperato le proprie risorse paesistiche con altrettanta pervicacia? Manca non di meno una riflessione sul drastico immobilismo che — ironicamente — ha fatto seguito alle «mani sulla città», la ripulsa del «Regno del Possibile», il fallimento della nuova Bagnoli, il tramonto di Napoli Est, i tempi paleolitici delle linee metropolitane, l’abbandono alle ortiche dello splendido Molo San Vincenzo. E manca la piena consapevolezza che l’eccezionalità dei tesori culturali e naturali si mischia storicamente all’eccezionalità del genio criminale e di una corale trasgressione delle regole
E di quale normalità avrebbe bisogno questa Napoli?
Ragionando in astratto questo enorme bisogno di normalità è bisogno di trasporti pubblici, parcheggi, assi viari aperti al traffico, smaltimento dei rifiuti, rifacimento della pavimentazione stradale, messa in sicurezza di cornicioni e balconate, lotta alla dispersione scolastica e al lavoro infantile, eccetera. Una vera e propria strategia della normalità, tesa esplicitamente a smontare pezzo dopo pezzo proprio l’eccezionalismo napoletano.
E su chi dovrebbe ricadere la responsabilità di costruire questa normalità?
Spetterebbe a chi governa il compito di costruire le «infrastrutture» ed assieme di spingere la cittadinanza verso comportamenti più virtuosi. Si tratterebbe di una sorta di precondizione a qualsivoglia progetto di sviluppo urbano, a qualsivoglia «idea di città» — anche la più convincente e innovativa — che venisse elaborata dalle istituzioni pubbliche o dall’impresa privata. È la stessa storia di Napoli, del resto, a suggerire quanto sia improbabile che la normalità nasca in conseguenza dei grandi interventi urbanistici, delle riqualificazioni materiali del tessuto metropolitano, delle opportunità di vita quotidiana offerte (teoricamente) dalle realizzazioni architettoniche.
Quindi non bastano piani urbanistici ambiziosi e realizzazioni in sé importanti a costruire questa normalità?
Certo che non bastano, è sufficiente ricordare come, essendo collocate in contesti densi di criticità di ogni tipo, siano fallite le illusioni urbanistiche del dopo-terremoto o le grandi ambizioni delle Vele, come rischi di fallire l’opera più impegnativa degli ultimi decenni, e cioè il Centro Direzionale, come appaia in declino il territorio strategico della Mostra d’Oltremare, come fatichi a sopravvivere il parco di Edenlandia. E via dicendo. Avrebbero fatto la stessa fine in altri contesti cittadini?
E quindi cosa serve per evitare che si verifichino questi fallimenti?
L’esperienza suggerisce che servono infrastrutture materiali e culturali di normalità per dare respiro alle opere urbanistiche e non viceversa. Ma questo riporta alla domanda iniziale. Siamo sicuri che la città voglia essere normale? Che non esistano piuttosto forti resistenze da parte di ampi settori della popolazione? Siamo sicuri che la normalità paghi politicamente coloro che ne vogliano fare un programma elettorale? In fondo (cito quanto scrivevo in: Napoli. Nostalgia di domani, Il Mulino 2018) la città può essere illustrata come un grande corpo al cui interno pesi e contrappesi si mischiano e si bilanciano. E non in modo istintivo o fortuito, ma con accorta e organizzata complessità. Un grande marchingegno omeostatico, per dirla con una metafora.
Eppure, nonostante tutto, Napoli riesce a resistere: come ha resistito?
Della città, intere generazioni di pubblicisti hanno denunciato la miseria, il mattone selvaggio, la criminalità, il parassitismo. E tuttavia, se Napoli non ha imboccato con passo deciso la crescita civile ed economica, neppure è finita all’inferno. Nè Rinascimento, nè Gotham City.
Piuttosto, ha continuato a vivere sulle sue contraddizioni. Ha dilapidato la sua ricchezza ambientale, ma ha costruito case a buon prezzo per decine di migliaia di famiglie. Ha subito una drastica deindustrializzazione, ma ha covato in seno — in quantità massicce — l’economia sommersa e il lavoro nero. Ha scelto di difendere con le unghie e con i denti gli antichi assetti sociali del centro storico, finendo per condannarlo alla fatiscenza. Ha accettato clamorose inefficienze amministrative, cogliendo però non pochi vantaggi dal carattere permeabile dell’ordine pubblico e dalle innumerevoli pratiche illegali che esso permette. Ha ricevuto dalla criminalità posti di lavoro, assistenza sociale e fiumi di denaro da riciclare nel terziario.
Che fare, allora ? Si ritorna sempre alla domanda classica, in una situazione che vede tutte le città che ad attendono , come manna dal cielo, i fondi del PNRR
Sarà un duro lavoro, tutt’altro che lineare tornare alla normalità, smontare assetti sociali e culturali consolidati, proporre — e imporre — un modello di modernità che, nelle condizioni date, potrebbe rivelarsi astratto. E forse — prima di far conto sulle virtù salvifiche del Pnrr — è su Napoli e sui napoletani che bisognerebbe ragionare. Senza stereotipi, ma senza patriottismi. Toccherà farlo al sindaco e alla sua squadra, ai partiti e al ceto politico, agli imprenditori che vogliono investire sulla città, ai molti spettatori entusiasti di Alberto Angela.
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