Mi capita sempre più spesso di trovarmi su posizioni politiche contrastanti e lontane da quelle dei miei amici di sempre; amici con cui ho condiviso ideali, formazione, lotte politiche e sociali, anche speranze. Prendo atto della loro coerenza, che da allora non li ha spostati politicamente di un millimetro, mentre la mia molto più tormentata e contraddittoria incoerenza (una incoerenza coerente) mi ha spostato progressivamente e di molto. Loro diranno ‘spostato a destra’, secondo una assai discutibile e schematica spazialità politica, anche se sanno che la cosa mi offende molto. Anzi, in realtà per rispetto, per amicizia (o per pietà), non lo dicono ma lo pensano e ciò mi addolora lo stesso e forse di più, perché sapendo che lo pensano, ma non lo dicono, non ci si può nemmeno parlare; d’altra parte, considerano ‘destra’ tutto ciò che diverge anche di poco dal loro pensiero e dal loro sentire.
Non nego che la questione della pace è una di quelle in cui mi sono spostato di più, se è vero che a quindici anni ho inaugurato la mia un po’ sconclusionata e molto altalenante militanza politica con le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam; e ascoltando i cantautori pacifisti e Dylan (si cantava convinti la sua ‘Blowin’ in the wind’ nelle messe alternative del post concilio che frequentavo da ‘cattolico del dissenso’, definizione oggi obsoleta, ma allora piena di significati). Sul tema della pace e della guerra con loro, con i miei amici di sempre, prima di tutto vorrei parlare di questo mio spostamento. E delle mie ragioni. Sarà perciò un editoriale molto lungo, ma esplicitare ragioni complesse lo richiede, e lo affronti chi ritiene ben speso il tempo di una lettura approfondita.
Dunque. Chi sono i pacifisti? È difficile dirlo, perché dietro a questa definizione si celano umori, pensieri, azioni a parer mio molto diversi, con obiettivi diversi e con analisi molto diverse sulle situazioni belliche e soprattutto sui loro protagonisti. All’interno di questa categoria così composita c’è tuttavia un sentimento per la pace sincero nella sua radicalità. Questo sentimento radicalmente pacifista non è però di tutti. Incistate nel pacifismo ci sono posizioni che lo graduano a seconda degli attori in campo, assolvendo nelle azioni belliche coloro che considerano amici e condannando senza attenuanti coloro che considerano nemici. D’altra parte, come si vedrà, devo ammettere che io stesso mi regolo nello stesso modo, seppure graduando in modo, se si vuole, inverso a certi pacifisti a senso unico.
È però all’amico e al pacifista sincero ed autentico, non a senso unico, che vorrei rivolgermi, di qualunque tipo sia, dal momento che il rispetto e la comprensione verso di lui da parte mia è totale.
È a lui, dunque, che mi rivolgo per chiedere di accogliere tra le sue fila anche chi, analizzando le situazioni date, pensa che la pace sia una conquista che necessita di un lungo lavoro che si misura sugli anni e sui decenni, se la si vuole duratura e, kantianamente, ‘perpetua’. E che, per perseguirla in modo granitico su questi tempi lunghi, accetta, nei tempi più brevi che ci sono dati, la contraddizione dell’uso della forza in alcuni ben precisi e individuati casi. Ritenendola una necessità ‘giusta’, fino a che resta necessità, una via obbligata. E in ciò trovo un sostegno sul concetto di ‘giustizia’, ancora del tutto attuale, elaborato dal politologo democratico americano John Rawls, che nella sua opera più celebre, “Una teoria della giustizia”, fa un passaggio chiave anche sulla guerra ‘giusta’. E il richiamo che si può fare alle resistenze partigiane ‘giuste’ contro il nazifascismo di 80 anni fa non è un espediente strumentale, ma un riferimento che deve far riflettere il pacifista radicale che non ammette se e ma. E si potrebbe aggiungere, per far riflettere, anche l’intervento, direi piuttosto decisivo e ancora più necessario allora, delle truppe alleate. Anche se il giudizio su quell’intervento è molto più complesso; dal momento che gli alleati, oltre a sacrificare centinaia di migliaia di militari loro concittadini, hanno compiuto scientemente anche atti che a posteriori possono essere giudicati come veri e propri ‘crimini di guerra’ verso la popolazione civile ritenuta avversaria, quella italiana compresa. Necessari quei ‘crimini’? Ognuno consulti la storia reale e si dia una risposta. Io, lo confesso, non so ancora darla, ma non posso non vedere che ci sia una risposta quantomeno in ‘bilico’ tra la ferma condanna e la ‘giustezza estrema’ anche di certi ‘crimini’.
È pur vero che oggi il rischio di guerra nucleare aumenta, e di molto, l’ansia sulle escalation belliche. Di fronte a un rischio del genere io stesso resto interdetto e non c’è realismo che tenga, perché l’emotività e la paura prevalgono e, se facessi prevalere questo sentimento, abolirei senz’altro questa arma estrema. Conosciamo però il ragionamento che sta sotto questa follia distruttiva e lo ricordo perché, pur non accettandolo neppure io d’istinto, devo però prendere atto che la politica interna ed estera (ma è una distinzione che non ha più molto senso) da sempre hanno il cinismo nel loro DNA. E non è forse casuale che a distanza di cinque secoli il politologo fiorentino Niccolò Machiavelli sia ancora citato e portato in palma di mano trasversalmente da destra a sinistra, le categorie spaziali dure a morire. Machiavelli, se fosse in vita, molto probabilmente valuterebbe che questo tremendo rischio nucleare andrebbe corso come elemento di deterrenza; per quanto tragico per le sue possibili conseguenze e per quanto sottrae di risorse economiche a politiche sociali e di sviluppo umano, a cui pure il fiorentino non era insensibile rispetto ai suoi tempi. Ma andrebbe corso proprio per l’altissima improbabilità della sua attuazione. Il suo paradosso sarebbe la convinzione che l’arma di gran lunga più distruttiva è una deterrenza che può essere ricondotta al “si vis pacem para bellum” di romana memoria, non solo una teoria, ma una prassi che storicamente ha in effetti mantenuto a lungo una situazione di sostanziale pace. Il ragionamento machiavellico sarebbe semplice nella sua brutalità: la guerra nucleare è una conseguenza possibile solo teoricamente, ma altissimamente improbabile nella pratica proprio perché molti contendenti in campo ne posseggono l’arma. La più improbabile, direbbe Machiavelli, delle situazioni di guerra, rispetto alle consuete ordinarie, sempre invece costantemente dietro l’angolo un po’ dappertutto, dal momento che paradossalmente quella nucleare ottiene una condizione di pace ben più salda di altre strategie più deboli. La domanda sottesa al ragionamento machiavellico è questa: cosa accadrebbe se gli arroganti della terra, che per primi scatenano le aggressioni, si trovassero di fronte un avversario totalmente indifeso o non in grado di pareggiare la sua forza distruttrice? E in effetti, e qui lo dico in modo neutro con una semplice constatazione, l’arrogante e il prevaricatore non osa sganciare il suo missile nucleare solo perché sa che lo riceverebbe. Può ripugnare, è comprensibile che ripugni, ma si rifletta che non è l’unico caso in cui una cosa ripugnante viene prevista per ottenere una condizione quantomeno più accettabile. Certo al momento anch’io farei fatica a sottoscrivere questo lineare ragionamento, ma non posso neppure ignorarlo, perché è lo specchio della condizione attuale.
Io credo che sulla questione dei conflitti bellici, per poterne uscire e avviare un lungo processo di reale pacificazione mondiale (perché la ‘scala’ geografica di una pace possibile è solo quella mondiale), è fondamentale basarsi su un crudo realismo. E del resto il realismo è d’obbligo per tutte le questioni in cui si debbano compiere atti migliorativi della vita collettiva, dal più piccolo al più grande, pena non migliorare mai nulla. L’amica Paola Cavallari con molto apprezzabile slancio in un articolo di prossima pubblicazione per la rivista Esodo, di cui io stesso faccio parte, articolo molto documentato e sorretto dalle sue ragioni, ad un certo punto in un inciso dice: “abbiamo bisogno delle utopie”. Ho anch’io una formazione basata molto sulle utopie e le rispetto perché fanno parte dell’immaginario umano e del mio stesso bagaglio formativo, ma ho cominciato presto, e quindi da molto tempo, a vederne l’altro lato della loro medaglia: l’utopia ti abbaglia e non ti consente di accettare una condizione di sostanziale miglioramento della situazione precedente, facendotelo considerare sempre e comunque come un vile compromesso, allontanando anzi all’infinito il fine che essa stessa si era posta.
Poi si sa, nessuno può impedire a nessuno di sognare, ma l’avvertenza è di essere consapevoli che si tratta di un sogno. E non nego che, se c’è tale (difficile) consapevolezza che mescola l’irrazionale/emotivo (il sogno irraggiungibile) con il razionale (la coscienza che il sogno non si può raggiungere), anche l’utopia abbia una sua forza nell’azione. Tuttavia, il realismo attivo, se sorretto da uno stile continuamente riformatore, a parer mio riesce maggiormente ad avvicinare continuamente finalità parziali che segnano un cammino di progresso continuo e che alla lunga migliora la qualità complessiva del genere umano.
La questione pace-guerra è perfetta al riguardo per l’applicazione di un realismo attivo.
La vicenda della guerra in Ucraina pone dei problemi di coscienza non da poco, nel chiedersi come ottenere la pace. Quella di Israele ancora di più.
Si tratta di chiedersi che cosa deve accadere quando le frontiere di uno stato sovrano sono violate da un altro stato con un atto unilaterale. La difesa armata da parte di chi ha subito la violazione è moralmente giusta?
Il punto interrogativo è doveroso perché si tratta eticamente di una soluzione sul limite, come si dice, sulla ‘linea di confine’ o ‘sul bordo’. Ed è gioco forza riferirsi alle frontiere degli stati sovrani per domandarsi se possono considerarsi come qualcosa di giuridicamente indiscutibile. Alla fine, secondo me giuridicamente indiscutibili lo sono, ma con un percorso che è un campo minato da sminare, pieno di contraddizioni.
C’è un paradosso da evidenziare, sempre in premessa.
Ed è questo. Da una parte la modernità ha progressivamente partorito, come uno dei suoi caratteri fondanti, la forma stato territoriale sovrano che conosciamo, all’inizio non necessariamente su base nazionale (termine comunque aleatorio, la nazione), poi sempre di più su questa base forzata e astratta, per la necessità di far corrispondere la popolazione con il territorio di sua competenza. E per farla corrispondere doveva forzatamente trovare un criterio di omogeneità identitaria, la nazione, qualcosa che in natura, ma anche socialmente, non esisteva. Oppure che era incerta e indefinita ex ante, ma che poteva apparire più reale e in qualche misura più convincente ex post, a cose fatte.
È una forma, lo stato nazione, che oggi la globalizzazione sta progressivamente erodendo e mettendo in discussione con la mobilità senza confini di persone, merci, denaro e soprattutto informazioni, con l’immaterialità e l’annullamento, o l’estrema riduzione, del rapporto spazio/tempo, fornita dalla rete telematica. Però per quattro secoli lo stato nazionale, o in qualche caso plurinazionale, ha funzionato e per certi aspetti funziona ancora, come forma istituzionale decentemente solida, l’unica così un po’ più solida, al cospetto delle altre, sul piano geo politico internazionale. Quello che non ha mai funzionato bene è una logica universalmente riconosciuta e accettata da tutti, specie dagli stati confinanti, di come essi, gli stati nazione, si debbano costituire, o si siano costituiti, per ciò che attiene alla popolazione e alla sua identità, ma anche per ciò che attiene a un certo grado di omogeneità geo fisica, il tutto in assenza di regole certe.
E infatti gli stati sovrani sono una struttura, un’istituzione, e vale per tutti o quasi, giuridicamente comunque fragile. Per come si sono formati e delimitati in modo quasi sempre autoreferenziale, nascendo a loro volta da arbitrii, sopraffazioni, auto-mitizzazioni, attraverso memorie e storie o falsificate o forzate o discutibili, legate ad alcuni concetti come popolo, nazione ed etnia che ancor oggi risultano categorie importanti, divenute importanti, quanto sistematicamente incerte e contraddittorie nella loro definizione. Tanto per essere ancora più chiari con un esempio davanti agli occhi di tutti in queste settimane: la costituzione dello Stato d’Israele è avvenuta attraverso un opportunismo storico, con forzature e atti unilaterali e per certi versi arbitrari. Chi ha costituito lo Stato d’Israele ha imposto una situazione di fatto facendola diventare di diritto attraverso la costituzione di uno Stato, sapendo che è la forma istituzionale comunque più accreditata e difficilmente smontabile, una volta che è avvenuta, una sorta di fatto compiuto. E’ un esempio, quello di Israele, che vale per molti o quasi tutti gli Stati nazione della terra, ivi compresa l’Italia. Una forzatura anche tutti gli stati nati dalle ceneri del colonialismo, che aveva spartito i terreni di competenza delle diverse potenze secondo criteri loro e non certo delle popolazioni residenti. E infatti questi ultimi sono indubitabilmente degli stati, ma quasi mai stati nazione, venendo loro a mancare quell’attribuzione, pur per molti aspetti arbitraria, che altri comunque si sono dati.
Il diritto internazionale è ancor oggi impotente di fronte a tutte le situazioni di fatto che diventano di diritto.
Ed è impotente perché gli manca una cornice di norme planetarie efficaci e certe. È un diritto a cui manca la certezza. Certo, è su questo piano, con un’estensione e un adeguamento del diritto fondato su un patto valido su scala planetaria, che una pace reale e non solo invocata potrebbe un domani realizzarsi. Ho avuto modo di leggere in anteprima, non ancora pubblicato, un articolo della rivista Esodo sul tema pace-guerra a firma di Marco Mascia, cattedratico di Relazioni Internazionali dell’Università di Padova. La prospettiva del diritto, e la conseguente riforma dell’ONU, che Mascia nel suo articolo srotola in tutte le sue sfaccettature, va presa molto seriamente. E ci aggiungerei nel diritto internazionale la norma, che forse lui ritiene implicita, dell’autodeterminazione delle popolazioni coinvolte in diatribe di appartenenza ad uno stato o ad un altro (caso Ucraina …).
Tutto ciò è però auspicabile, ma futuribile, e per ora bisogna prendere atto che, nonostante i molti vizi con cui si sono costituiti, gli Stati sovrani nel quadro del diritto hanno un loro barlume di consistenza.
Perché, pur essendo così fragili, al cospetto di tutto il complesso delle norme del diritto internazionale si presentano come l’unico riferimento da dover obbligatoriamente accettare in mancanza di altro. Nella misura in cui per il resto il diritto internazionale, come già detto, mi pare di una inconsistenza e di una opinabilità molto maggiori.
Se mettiamo in discussione anche gli Stati sovrani eliminiamo l’unico riferimento giuridico internazionale, pur debole, a cui aggrapparsi per rimanere in un ordine decente per quanto sempre precario. È chiaro perciò che, se uno Stato sovrano viene attaccato, deve avere il diritto riconosciuto internazionalmente di difendersi come può o ritiene. Può decidere di non esercitare questo diritto, farsi violare come scelta etica o anche strategica, ma questo lo decide lui. Quello che sta succedendo in Ucraina è esattamente questo. E per questo una pace che preveda di accontentare anche di un millesimo di grammo la criminale azione di Putin significa intaccare il principio del diritto di difesa del territorio nazionale e diventa un precedente che può poi legittimare altri atti di questo tipo. Vedo invece che il pacifismo che chiede un compromesso per ottenere la pace subito in Ucraina, indirettamente, di fatto, accetta la legittimazione della parte occupata dai russi come base di una negoziazione.
Si può discutere, certo, sul fatto che altri Stati aiutino lo Stato interessato che si difende, nella fattispecie l’Ucraina, con invio di armi e di truppe, visto che formalmente il problema è suo e non degli altri. È un’obiezione fondata, con delle ragioni formali che possono anche prevalere e far giudicare negativamente quello che stanno facendo al riguardo gli Usa e gli Stati Europei. Ma il giudizio negativo su questo invio da ‘fuori’ non è il mio giudizio, anche se ammetto che questa è una mia personale posizione, fragile sul piano formale (perché formalmente l’aggressione non riguarda l’Italia), che invece ritengo forte sul piano politico e persino etico. Perché politicamente ritengo offesa non l’Ucraina ma L’Europa a cui l’Ucraina ha chiesto di aderire come istituzione e come alleanza militare, europea, di difesa, la NATO cioè. Se ha un qualche senso il concetto di patria come casa comune, legata sia agli interessi sociali e culturali presenti, sia alla tradizione di civiltà, l’Europa è questo per me oggi e la sua istituzione si è meritata da parte mia una fiducia che va ben oltre la mera aggregazione di interessi economici; quella che i detrattori dell’Europa continuano a ritenere l’unica fisionomia, considerando la UE un’alleanza per un mero mantenimento di potere economico, ( “l’Europa delle banche”, “l’Europa della finanza” continua ad essere la sintesi ideologica della tendenziosa narrazione dei detrattori). L’Europa al contrario oggi costituisce l’unico esempio concreto di superamento degli stati sovrani imposti nei secoli precedenti come unici attori autorizzati ad agire nel contesto internazionale, istituzione più forte e significativa dell’ONU, a cui può fornire un esempio da seguire. Da questo punto di vista non ho dubbi quindi sull’equazione “diritto difensivo dell’Ucraina=diritto difensivo dell’Europa”.
Più lungo e complesso è invece tutto il discorso che si è fatto strada in parallelo sul ruolo degli USA, della Nato e sull’identità occidentale. Affrontarlo qui significherebbe scrivere ancora a lungo e lo spazio è finito. Avverto però che per me l’equazione continua, pur tra una selva ancora più fitta di contraddizioni.
Mi rendo conto che questi miei argomenti sul pacifismo realista sono quasi tutti da dimostrare nella pratica. E mi rendo anche conto che si possono solo cercare di dimostrare con argomenti teorici, e ho cercato di farlo, non so con quale forza e con quale rigore persuasivo. Devo dire però che anche al pacifista radicale totale spetta la stessa impresa: dimostrare, almeno con la logica e la razionalità teorica, che il suo declamare la pace integrale e totale hic et nunc ha, per la sola forza dell’invocazione, una sua capacità realizzativa altrettanto hic et nunc. Come dire che qualsiasi strategia di pace, come del resto qualsiasi strategia in genere per qualsiasi fine, si misura con le sue concrete possibilità realizzative misurate sugli stessi tempi.
Chi è più pacifista concreto dei due lo si vedrà solo a cose fatte, a pace duratura realizzata o meno. Nella sincerità delle intenzioni pacifisti sono entrambi, almeno in questo alla pari.
(questo articolo, con il consenso dell’autore. È ripreso dal sito www.luminosigiorni.it)
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