L’illusione liberista di Andrea Boitani, Editore Laterza 2021, è un libro importante in quanto analizza, pur con intenti divulgativi, un tema cruciale di economia che l’autore affronta con passione e coraggio. Dichiaro subito che la penso esattamente come lui quando nella Prefazione afferma:”….bisogna agire in modo da valorizzare al massimo le virtù del mercato e da correggerne energicamente i vizi, senza mitizzarlo e senza demonizzarlo”. Tuttavia non rinuncio a formulare una critica, anche forte, al libro.
Il problema più difficile per commentare il libro è quello di individuare il “bersaglio” della sua critica, bersaglio ondivago e spesso non precisato rigorosamente. La questione è complessa anche perché la nozione di liberismo non è univoca e non corrisponde direttamente a quella di liberalismo. Ad ogni modo, nella classica disputa Einaudi-Croce, il primo sosteneva che è difficile essere liberali e disconoscere che la libertà della persona possa derivare anche grazie al funzionamento del mercato. Io mi riconosco in questa posizione.
Sono almeno 4 i “bersagli” che si intrecciano nel libro di Boitani e che è importante tenere separati: (i) un’ideologia, (ii) la sua applicazione concreta, (iii) come origine delle disuguaglianze, (iv) la disciplina economica.
Il primo bersaglio è l’ideologia del primato assoluto del mercato. Ma chi ha costruito questa ideologia e chi la sostiene? Per me è importante affermare che non è l’economia politica, come invece traspare dal libro. Nella teoria economica non c’è illusione liberista, non c’è il feticcio del mercato, nessuno economista serio, formatosi nelle scuole di economia del secondo 900, sostiene che questo faccia miracoli.
Prendiamo le proposizioni che dettano le condizioni per le quali il mercato sarebbe l’istituzione dominante: i teoremi fondamentali del benessere, il teorema di Coase, il teorema della privatizzazione di Sappington e Stiglitz, i teoremi dell’informazione perfetta e simmetrica, il modello delle isole di Lucas con aspettative razionali. La ”buona” teoria non li ha assunti in positivo, li ha presi come benchmark da cui in negativo generare tutte le più importante teorie dell’intervento pubblico nell’economia del 900. Non mi diffondo per mancanza di tempo, posso solo invitare a scorrere i capitoli di buoni testi di scienza delle finanze e politica economica: le esternalità e beni pubblici, i contratti incompleti, la teoria dei diritti residuali di controllo e dell’impresa, la teoria della regolazione indicano rigorosamente la via per correggere le disfunzioni del mercato.
La “buona” teoria ha viceversa valorizzato le virtu’ della concorrenza, nel senso di libertà di entrata, contendibilità e rivalità, come strumenti, attraverso l’innovazione, per la crescita di una società. Questi si che sono temi del liberismo economico di cui Boitani è peraltro grande esperto e che non credo abbia abiurato.
Altro bersaglio è l’applicazione concreta del feticcio a livello di politica economica. Sarebbero i politici al governo e le grandi organizzazione internazionali a idolatrarlo. Tuttavia, nella storia solo il governo di Margareth Thatcher dichiarava esplicitamente di seguire il feticcio. Nessun altro paese ha pedissequamente seguito questa linea. Nemmeno Ronald Reagan che ha distribuito fiumi di spesa pubblica lasciando dilagare il debito (e lasciando Laffer nella salvietta del ristorante…). Sfido poi chiunque in buona fede a dichiarare Trump un liberista, tanto meno un liberale.
I paesi del Sud America con la consulenza dei Chicago boys hanno alla fine seguito solo temporaneamente la linea liberista Thatcheriana. E poi il vero problema per loro era crearlo un mercato in quanto inesistente, per cui un po’ di liberismo alla fine ha avuto effetti positivi.
Né la grande finanza prosperata durante la grande moderazione di Greespan-Bush, né il rigore degli eredi dell’ordoliberalismo tedesco sono originate da liberismo economico. Nel primo caso è il sodalizio Tesoro-Fed che ha garantito il dominio dei monopoli finanziari e industriali sul libero mercato e la concorrenza. Nel secondo caso i vari Weidman, Fuest, Schauble sono più che altro gli interpreti dell’ossessione germanica storica nei confronti dell’inflazione. Ricordo peraltro che è dall’ordoliberalismo tedesco degli anni trenta del secolo scorso che è nata la partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale, non proprio un’opzione liberista.
Quanto alla politica economica dell’Unione Europea, il feticcio del mercato non c’è neppure nel Patto di Stabilità e Crescita e nel Fiscal Compact. Il “Brussels-Frankfurt consensus” non è stato l’esaltazione del mercato, quanto dell’intento di limitare una politica economica europea che non fosse primariamente antinflazionistica e eludere la creazione di una capacità fiscale europea. Lo schema non ha retto alle crisi sistemiche e globali e si è rimediato con l’allentamento del rigore. D’altra parte non credo si possa sostenere che sia frutto di una ideologia liberista prestare attenzione alla dinamica del debito. Si tratta solo di buon senso. Infine, è ancora l’agenda del Trattato di Lisbona, che sancisce l’economia sociale di mercato, a definire i contorni della politica sociale europea e ora abbiamo il NGEU.
In Italia, dove non riusciamo a scrivere una decente legge sulla concorrenza, né i liberisti né i liberali hanno rappresentanza politica. I nostri sovranisti non lo sono certamente, così come non è lo è mai stato Berlusconi. C’è qualche posizione liberal marginale nel PD, nei radicali e in qualche velleitario centrista. Le politiche accolte all’unanimità del parlamento sono quelle che prevedono l’intervento diretto dello stato (Alitalia, MPS, Autostrade,….) o lo sforamento sistematico dell’equilibrio di bilancio.
Il libro di Boitani poi rivolge lo sguardo critico alla diseguaglianza provocata dalla globalizzazione selvaggia. Ma se l’evidenza delle grandi disuguaglianze (tra stati e negli stati) è ormai un fatto acclarato, per la sua spiegazione, in particolare come frutto avvelenato della globalizzazione, il dibattito è aperto. Acemoglu e Robinson, grandi interpreti dello sviluppo economico, sostengono che ben più forte è l’effetto della democrazia debole e delle carenti istituzioni.
E’ in ogni caso importante sottolineare che globalizzazione non è sempre liberismo. Lo è quando persegue la liberalizzazione degli scambi internazionali, non lo è quando va contro la persona umana con lo sfruttamento minorile. Non dimentichiamo che la lotta dura e vincente contro la schiavitù l’hanno condotta i liberali americani per affermare le condizioni di funzionamento del mercato del lavoro. La globalizzazione come effetto dell’aggressione dei mercati internazionali di paesi non democratici come Russia, Cina, Tailandia, Vietnam e Myanmar non è liberismo: è il trionfo dei monopoli di stato. La globalizzazione originata dalle catene del valore costruite dalle multinazionali, con l’applicazione della “legge della distruzione creatrice”, indubbiamente sposta la distribuzione della ricchezza verso la concentrazione e toglie certezze all’occupazione,, ma il saldo tra vantaggi e svantaggi della loro presenza in un paese come il nostro è comunque certamente positivo. Per esempio, senza le multinazionali l’economia Toscana, con il suo indotto di piccole imprese, morirebbe.
Quanto all’equità e alla distribuzione della ricchezza è del tutto compatibile con il mercato combattere la disuguaglianza ricorrendo ai tre strumenti classici del liberalismo (liberismo) economico: la tutela della concorrenza, con la dissipazione della rendita da potere di mercato, l’aumento della produttività e quindi dei salari reali e la redistribuzione fiscale, con la progressività. Al riguardo, gli storici economisti liberali, come Luigi Einaudi o Antonio De Viti De Marco, hanno teorizzato la possibilità e l’opportunità di unire libertà degli scambi con la redistribuzione tramite la tassazione che modifica i prezzi dei fattori produttivi di mercato. L’unico limite è nella salvaguardia del risparmio e degli incentivi ad intraprendere attività economiche e investire. La disuguaglianza non spinge la crescita, come dice Boitani, ma una redistribuzione diciamo non accorta in quanto motivata dall’ideologia, la può limitare.
Infine, nel libro il bersaglio della critica è la disciplina economica, con l’egoismo dell’homo economicus e l’imperialismo intellettuale. Critica non nuova ma talvolta eccessivamente sbrigativa e quasi salottiera, a cui hanno risposto prestigiosi economisti. In merito, il premio Nobel Ian Tirole, invita, per trattare con rigore analitico e apertura mentale il paradigma dell’egoismo e collocarlo nella sua fondamentale posizione metodologica, a guardare alla teoria delle scelte sociali, che contempla fenomeni come l’altruismo e le preferenze estese, e alla teoria dell’informazione imperfetta, in cui si sottolinea la rilevanza gli incentivi non monetari, etici, culturali e sociali per le decisioni degli agenti economici.
L’economia politica è anche metodologia e ricerca del rigore analitico, da qui il paradigma dell’ottimizzazione e degli incentivi come punto di partenza, da cui allontanarsi per contemplare i casi in cui il comportamento umano non è ottimizzante e allargare il contesto. La verifica empirica supporta poi i nuovi risultati teorici o li invalida. D’altra parte, l’aver trasferito la logica degli incentivi per studiare il comportamento dei politici, e quindi immaginarli agenti ottimizzanti è stato un grande passo avanti per lo studio proprio dell’intervento pubblico nell’economia. Quanto all’imperialismo della scienza economica, ammesso esista, devo confessare che sono molto più preoccupato per quello operato da altre discipline sociali.
In conclusione a mio parere, il liberismo economico messo sotto accusa da Boitani non rappresenta un pericolo, tanto meno fonte delle disgrazie del mondo, in quanto, nella versione radicale richiamata, non è sostenuto da basi solide di teoria economica ed è un fenomeno empiricamente poco rilevante. Molto più pericolose sono le pulsioni sovraniste, isolazioniste e le moderne potenze economiche di stato, con democrazia soffocata.
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