«Violammo il mare, distruggemmo mostri, mettemmo piede sui prati del còlchico… eppure morimmo ciascuno di un’arte di maga… E qualcuno ora è vecchio – e ti parla – che vide i suoi figli sacrificati dalla madre furente». Con queste parole il Giasone di Cesare Pavese racconta a una giovane custode del tempio di Corinto la crudeltà di Medea, la maga che spargeva morte e non piangeva mai. E qualcosa di questa Medea novecentesca resta nella donna di Roberto Riviello, che ha cancellato dalla sua mente il delitto più orrendo che una madre possa commettere, e che, lungi dall’essere relegato a un mito classico, si squaderna nelle pagine di cronaca dei nostri avveniristici giorni.
Nel celebre monologo che la Medea di Euripide pronunciava e a cui si ispira idealmente Riviello, la maga del mito rivendicava il j’accuse delle donne nei confronti della società: «Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente, noi donne siamo le creature più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro, comperarci il marito e dare un padrone alla nostra persona… Separarsi dal marito è scandalo per la donna, ripudiarlo non può… Quando poi l’uomo di stare con i suoi di casa sente noia, allora va fuori e le noie se le fa passare… Dicono anche che noi donne vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della guerra… Vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché partorire una sola». Eppure, questo discorso, ricco di motivazioni logiche ha in sé la propria negazione: viene infatti pronunciato da colei che i figli li genera e poi, per la sua folle e disperata passione, li uccide. Che cosa voleva dunque dire l’antico poeta? Che una donna che rifiutava il suo ruolo non sarebbe mai stata una buona madre? Difficile valutare a tanta distanza, ma certamente la passione delle donne è, nella letteratura di ogni tempo, malsana e pericolosa: «Quando passione d’amore inumana vince su cuore di femmina, in sua vittoria coppie nuziali travolge di uomini e fiere», aveva detto Eschilo nelle Coefore, e così si può dire di Eva o di Pandora o di Elena, per cui «tanto reo tempo si volse», o della stessa Francesca da Rimini. Ma Medea è l’unica a colpire i frutti del suo ventre: è la peggiore di tutte le donne. Per lei non ci sono parole, sono l’oblio del carro del Sole accecante.
E questa Medea di Riviello? Questa nuova Medea ha ucciso i figli senza troppa convinzione. Non ha una società patriarcale contro la quale scagliarsi; non deve uccidere la prole per sottrarre a Giasone la discendenza e lasciarlo solo al mondo; non è una barbara in una terra straniera. Questa Medea è straniera a se stessa. Non vuole vedere il suo delitto, non lo rivendica, non lo esibisce: lo ha dimenticato, seppellito nelle ombre del suo folle delirio o confuso nelle nebbie di un farmaco. E se lo ha dimenticato non l’ha commesso. Al contrario, però, non ha dimenticato Giasone che resta lui solo il colpevole. Questa Medea malata è lei e il suo contrario. Non sa né vuole sapere. Questa donna è forse la Medea antica che, dopo essere stata rapita dal carro del Sole, si risveglia in un letto d’ospedale dove tutto quello che è accaduto è tornato nell’ombra per la luce accecante. E lei stessa, dimentica delle sue arti di maga, vive nel cono d’ombra della sua orribile colpa.
(Maria Teresa Imbriani è Professore associato di Letteratura italiana all’Università della Basilicata)
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