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Solo Riformisti

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Ma chi sono gli odiatori?

Il linguaggio dell’odio è stato sempre, per lo più, una specialità della comunicazione politica comunista. È stato inventato dal Pci negli anni del dopoguerra. Era uno strumento per delegittimare moralmente e gli avversari

6 Febbraio 2020 da Paolo Macry Lascia un commento

Un giorno o l’altro bisognerà pur capire perché esista in questo paese una scia indelebile, interminabile di odio politico. Oggi è opinione diffusa che il linguaggio dell’odio nasca da Matteo Salvini, ma se volessimo finalmente rompere le finzioni politiche (e le ipocrisie individuali) dovremmo riconoscere che si tratta di tutt’altra cosa. Certo, Salvini alza spesso i decibel della sua comunicazione politica e, quand’era ministro, alzava spesso il livello della sua proposta politica. Una proposta di destra populista. Magari inguardabile, ma legittima. L’odio politico però è un’altra cosa. È la tecnica della demonizzazione personale dell’avversario. È la produzione di odio nei confronti dell’avversario. Bisognerebbe perciò avere il coraggio di dire che, in questa ottica, è Salvini ad essere il bersaglio del linguaggio dell’odio. Stigmatizzato con facile anacronismo come “fascista”. Additato come “razzista” (ma allora era razzista anche Minniti?). Crocifisso per i “pieni poteri”, come se la cosa avesse qualsivoglia possibilità di realizzarsi. Ed è non di meno il bersaglio del linguaggio dell’odio Matteo Renzi, uomo solo al comando, pericolo per la democrazia, amico dei banchieri corruttori, figlio di indagati. Nessuno che lo accusi mai, ad esempio, per aver proposto il monocameralismo o un nuovo sistema elettorale. No, l’odio si costruisce altrimenti. Con le fake news. Con l’attacco personale. Basta leggere Travaglio. Basta ricordare quando Di Maio accusava il Pd di essere “il partito di Bibbiano”. Sono le ingiurie prepolitiche che sollecitano l’odio politico. E, naturalmente, andrebbe ricordata la valanga del fango che nei decenni scorsi si è abbattuta su Silvio Berlusconi, storicamente colpevole di aver fallito la rivoluzione liberale, ma mediaticamente crocifisso per le olgettine. E, prima, andrebbe ricordata la gragnuola di diffamazioni su Bettino Craxi, il cinghialone di Forattini, altro pericolo per la democrazia, altro corrotto, altro cultore del sesso extraconiugale, colui che qualche geniale comunicatore derubricò da uomo di Stato a uomo delle monetine. E tanto bastò. Colpito, affondato.
Ma attenzione. La livida storia dell’odio politico italiano non comincia con Craxi. E ci vorrebbe il coraggio di dire che quel linguaggio dilagava ben prima e che è stato un filo rosso del discorso pubblico di questo paese per tutto il secondo Novecento, allorquando cioè furono messi in croce, demonizzati, irrisi, delegittimati moralmente Giulio Andreotti, cioè Belzebù, e Gava e Fanfani e Leone e Scelba e ancora Forlani, Piccoli, Rumor, Donat Cattin, e chi più ne ha più ne metta. L’intera classe dirigente democristiana venne data in pasto alla plebe con studiata ferocia. Descritta mille volte come corrotta, antipopolare, guerrafondaia, serva dei padroni, serva degli amerikani. Oggi Moro è il martire delle Br, ma pochi ricordano quel che se ne diceva sui giornali negli anni Sessanta. E pochi ricordano quei corsivi di Fortebraccio che giorno dopo giorno, dalle colonne dell’Unità, colpivano sotto la cintola, con straordinaria violenza ideologica, gli avversari della sinistra: tutti brutti sporchi e cattivi.
Ma poi basta mettere in fila la sequenza dei nomi per capire un’altra cosa, chiara come il sole e però tuttora indicibile: il linguaggio dell’odio è stato sempre, per lo più, una specialità della comunicazione politica comunista. È stato inventato dal Pci negli anni del dopoguerra. Era uno degli strumenti con i quali un partito occidentale legato mani e piedi all’Unione Sovietica di Stalin cercava di legittimarsi delegittimando moralmente e culturalmente i suoi avversari, ovvero la Democrazia Cristiana. Una strategia che nasceva già con Togliatti e con gli sprezzanti giudizi di Roderigo di Castiglia e che sarebbe stata resa esplicita e divulgata urbi et orbi da Enrico Berlinguer, il leader della “diversità comunista”, colui che teorizzava l’Italia bella dei “compagni” e l’Italia corrotta di tutti gli altri.
Discorso schematico, povero di distinzioni? Sarà pure, ma di fronte a una reticenza vecchia di settant’anni, di fronte a un sistematico capovolgimento della verità, forse è il caso di tirare qualche somma, di individuare qualche tendenza. Specie oggi, quando il fiume degli odiatori di matrice comunista confluisce tranquillamente nel fiume del vaffa grillino, nel fiume di onestà-onestà-onestà, nel fiume delle Sardine antisalviniane.
Resterebbe da chiedersi perché la tecnica della delegittimazione dell’avversario abbia avuto tanta fortuna in Italia. Questione cruciale, che allude a taluni caratteri storici del paese, che rimanda a una sua antica permeabilità a ciò che oggi chiamiamo il populismo del Truce ma che era populismo anche quando lo attizzava il gentile Berlinguer. Però sarebbe un discorso lungo. Meglio rimandarlo.

 

 

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