Evidentemente non era il bravo ragazzo che tutti dicevano, e che persino Giulia Cecchettin, la sua vittima, probabilmente credeva, visto che continuava a frequentarlo anche dopo la fine del loro fidanzamento. Se Filippo Turetta l’ha uccisa, come pare tragicamente chiaro, con una ventina di pugnalate al collo e alla testa, non era un ragazzo modello; e per favore nessuno lo definisca “malato” e nessuno venga a dare la colpa di questo efferato crimine alla società e tantomeno alla famiglia di provenienza, visto che suo padre non lo ha minimamente scusato e ha dichiarato pubblicamente tutto il cordoglio possibile nei confronti dei familiari di Giulia.
La responsabilità di un crimine efferato come questo, e come le altre decine di femminicidi compiuti solo quest’anno, è sempre individuale; e come tale va perseguito, giudicato e severamente punito.
Ma “severamente punito” non significa ripristinare la pena di morte e ritornare indietro nel tempo. Perché l’Italia e l’Europa non sono l’Arabia Saudita e tantomeno la Russia. Da noi le leggi e le pene che ne derivano sono scritte nel rispetto di un codice valoriale che si chiama Costituzione, dove si precisa il limite invalicabile della giustizia che non deve mai scadere nella vendetta, per così dire, legalizzata.
Stiamo dunque attenti agli annunci di prossimi inasprimenti delle pene, all’arrivo di nuove leggi ancora più severe contro la violenza sulle donne, perché poi, quando domani queste nuove leggi dovessero risultare insufficienti a fermare gli stupri e i femminicidi, cos’altro si potrebbe proporre: la tortura? la sedia elettrica? l’impiccagione nelle piazze come si faceva un tempo? Le leggi esistenti, come quella recente del Codice Rosso, sono più che adeguate, quando vengano applicate e non disattese come purtroppo, talvolta, avviene da parte di certi magistrati.
Quello che invece serve ed è urgente è una vera e propria rivoluzione culturale, un’opera di educazione generale al rispetto e alla parità dei generi, che inizi dall’infanzia e si propaghi come onde nello stagno in tutti gli ambiti della società, inclusi i luoghi di lavoro dove i salari delle donne sono solitamente inferiori a quelli dei maschi (altra forma di subdola violenza).
A questo punto deve entrare necessariamente in ballo la scuola, ma in che modo? Scaricando come sempre tutto l’onere sugli insegnanti? Istituendo l’ora settimanale di educazione sessuale? Immaginando corsi di propaganda “gender” dove si vestono i bambini da bambine e viceversa?
Certamente non sarebbe questa la strada giusta, al contrario bisogna trovare nuove forme di comunicazione e divulgazione, nuovi strumenti, nuovi protagonisti. Aprire le scuole agli specialisti, servirebbe sì: a quelli seri, ai professionisti riconosciuti nel campo della psicologia e della pedagogia; e intanto finanziare e diffondere l’opera dei centri anti-violenza. Lasciamo perdere le inutili discussioni sullo “schwa” e la fluidità di genere che tanto piacciono a certa sinistra americaneggiante, e concentriamoci sui temi veri: in primis, l’accettazione della libertà delle donne di scegliere ma anche di chiudere un rapporto. Resta questo il nodo fondamentale, lo scoglio da superare, ma per farlo ci vuole una autentica rivoluzione culturale; non servono “leggi più severe” e nemmeno far giocare i maschietti con le bambole negli asili-nido.
Speriamo che il martirio di Giulia, anzi dell’ingegnere Giulia Cecchettin, questa volta ci aiuti a capire cosa fare e a farlo subito.
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