Cominciamo col dire, banalmente, che se dieci milioni di italiani guardano il festival di Sanremo, gli altri cinquanta non se lo filano per niente. Prova statistica che anche nelle famiglie meno dotate non sempre il cretino è prevalente, e che dunque si può sperare.
Sgomenta però, in ogni caso, che una terra che ha dato al mondo la civiltà di Roma, il Rinascimento e l’Umanesimo, un paese baciato dalla natura e dall’ingegno, disseminato come nessun altro di monumenti e opere d’arte di significato e valore inestimabili, riesca poi ogni anno a farsi rimbambire da quella specie di droga dello zombie che è appunto il festival della canzone italiana.
Se ne comincia a parlare addirittura prima di Natale, per poi assistere a un crescendo inarrestabile che esplode come un bubbone infetto nella prima settimana di febbraio, contaminando l’intera vita nazionale, quanto meno quella che si rispecchia nella televisione di stato e nella nobiltà dei media cartacei.
I quali media cartacei sono in realtà nobili decaduti, ormai agonizzanti con le pezze al culo e vanno in giro disperati alla ricerca di lettori come drogati in crisi d’astinenza. Anche il più recente accertamento della diffusione certifica difatti ulteriori tonfi tra il 10 e il 20 per cento. Eppure gli stessi quotidiani tuttoggi più importanti dedicano alle scemenze di Sanremo decine di articoli ogni giorno, come se quello fosse il massimo evento del millennio, e non, invece, il lassativo soporifero per i più anziani che guardano solo la tv e la trappola acchiappacitrulli per i giovani canzonettari che non leggono libri né giornali neanche sotto tortura.
In piena fregola, come stregati dalla piü bella del reame, i media convergono su Sanremo dove si agita invece una vecchia baldracca straccivendola, col trucco che le cola sulle gote paonazze, le poppe cascanti fino all’ombelico e le calze a rete strappate e rattoppate, Oltre le luci del varietà, difatti è questo il vero ritratto di Sanremo. Una fiera delle vanità dove tutto risulta orribile, una melassa diluita a forza per ore, che arriva stremata fino a notte fonda. Orribile la sala, la scenografia, il presentatore, le sue volgari trovate antifasciste, le battute, i balletti, i costumi, tutto è inguardabile e inascoltabile. Un habitat e un decor così sgangherati da rendere ridicola ogni presenza umana.
Trattandosi di una gara di canzonette, non si capisce neppure perché debba occuparsene la tv e non la radio. È vero che va così dagli anni Cinquanta, da quando il monoscopio è entrato nei salotti. Ma allora si trattava di due o tre giorni, mentre oggi l’impazzimento dura una settimana intera, con un prima e un dopo di strascichi e polemiche che non basta definire nauseanti.
Tutto ciò mentre sono in corso due guerre feroci non lontanissime dai confini, mentre la crisi climatica procede, mentre la mia Fiorentina va di cacca e mentre il paese cerca faticosamente di inoltrarsi nel futuro. Il che non significa che occorra sempre vestire a lutto. Né che l’alternativa sia la seriosità intellettuale. Nella vita è bene anche vincere qualche partita, stare allegri e divertirsi. Ma c’è modo e modo, ce lo vogliamo dire?
Scrivono alcuni che Sanremo è lo specchio di un’Italia gretta e provinciale. Tenendo conto dei cinquanta milioni che il festival lo ignorano, forse la stima è esagerata. Ma è vero che basta inciampare anche una volta sola nel ghigno terrificante di quel tale che spudoratamente si fa chiamare Amadeus, per correre da un esorcista. Sanremo è un incubo. Ecco cos’è.
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