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La tattica di Erdogan

Istanbul, e il suo centro simbolico, Santa Sofia, sono da due millenni uno dei poli di attrazione di civiltà diverse, di cui quella islamica può presentarsi come la sintesi. Erdogan pone la sua candidatura a guida del mondo islamico ma non rinuncia a nessuna delle precedenti alleanze e delle precedenti posizioni di potere

21 Luglio 2020 da Valentino Baldacci Lascia un commento

Che la reazione del mondo occidentale alla decisione di Recep Tayyp Erdoğan di riportare la Basilica di Santa Sofia allo stato di moschea sia stata del tutto inadeguata è sotto gli occhi di tutti. D’altra parte una diversa reazione avrebbe presupposto un’analisi e una riflessione non solo sul regime di Erdoğan ma anche sull’Islam del nostro tempo, un’analisi e una riflessione che le classi dirigenti del mondo occidentale rifiutano da tempo di fare.
Comunque, chi ha cercato di trovare un significato nella decisione di Erdoğan lo ha fatto, quasi sempre, riportandola sotto la categoria del neo-ottomanesimo. Poiché di neo-ottomanesimo si parla da tempo, questa scelta appare in un certo senso rassicurante perché riconduce un gesto che è in ogni caso fuori dell’ordinario all’interno di una categoria conosciuta.
Che Erdoğan conduca, fin dal momento in cui ha conquistato il potere, una politica neo-ottomana è difficile mettere in dubbio: la sua politica interventista in tutti i Paesi e in tutte le aree che avevano fatto parte dell’Impero ottomano ha assunto forme diverse ma è una costante della politica turca a partire dal 2003. Questo interventismo appare particolarmente evidente quando assume la forma della presenza militare come in Siria e in Libia. Ma non è meno importante l’incessante e capillare presenza diplomatica, culturale e propagandistica nei Paesi dell’area balcanica dove più forte è il retaggio della presenza ottomana: in Bosnia-Erzegovina, in Macedonia, in Albania, in Kossovo e anche in altri Paesi, come la Bulgaria, dove esistono minoranze turcofone.

Ma quello del neo-ottomanesimo è solo l’aspetto più evidente della politica di Erdogan. C’è poi un altro livello, meno evidente ma non per questo meno importante, ed è la politica di Erdoğan verso il mondo islamico nella sua totalità, di cui la decisione su Santa Sofia costituisce uno degli aspetti più visibili.
L’Islam del nostro tempo attraversa una fase che è al tempo stesso di espansione e di dispersione. Che l’Islam si stia espandendo praticamente in ogni parte del mondo, e in particolare in Europa e in Africa, è un dato che non può essere messo in dubbio. E’ un’espansione che assume aspetti e tratti diversi: in questo momento appare in regresso la forma più brutale della conquista e della sottomissione di interi territori, come è avvenuto con il Daesh, e ciò rassicura l’Occidente, anche se in Africa l’uso della violenza da parte di organizzazioni islamiche continua a essere la regola, sia nella parte orientale che in quella occidentale del continente. Ma l’espansione continua sotto altre forme, più capillari: la più evidente è l’immigrazione, che ha modificato la composizione culturale di ampie zone dell’Europa, ma esistono altre forme di espansione culturale meno evidenti.
Questa espansione islamica avviene in forma disordinata, senza un piano, soprattutto senza un centro. Questo per certi aspetti ne costituisce la forza, ma al tempo stesso crea una domanda. La riconversione di Santa Sofia in moschea può essere letta anche come un inizio di risposta a questa domanda latente: il mondo islamico – così come avveniva per la cristianità nel Medioevo e fino alle soglie dell’età moderna – continua a considerarsi, pur in presenza di profonde divisioni, una totalità che condivide valori comuni, che costituisce un’unità, la Umma. E’ alla Umma che Erdoğan probabilmente si rivolge riportando in Santa Sofia il culto islamico: in fondo Ankara è rimasto un centro dell’Anatolia profonda, importante per Erdoğan a fini interni, ma senza alcuna capacità di attrazione verso l’esterno. Istanbul, e il suo centro simbolico, Santa Sofia, sono da due millenni uno dei poli di attrazione di civiltà diverse, di cui quella islamica può presentarsi come la sintesi.

C’è da tener presente che Erdoğan unisce a disegni strategici così grandiosi una grande abilità e una notevole duttilità tattica. Nel momento stesso in cui pone la sua candidatura a guida del mondo islamico non rinuncia a nessuna delle precedenti alleanze e delle precedenti posizioni di potere. La Turchia continua a far parte della NATO e in fondo la sua posizione di possibile strumento di contenimento dell’espansionismo russo continua, anche se affievolita, a sussistere. Si pone come difensore dei diritti del popolo palestinese, ma senza mai usare il linguaggio apocalittico proprio dell’Iran degli ayatollah, anzi continuando a mantenere con Israele rapporti diplomatici. Non avanza, anche qui a differenza dell’Iran, la candidatura al possesso dell’arma atomica, e questo è un ulteriore elemento di rassicurazione per l’Occidente, in particolare per gli Stati Uniti. Mantiene perfino le forme di un governo democratico, anche se sostanzialmente depotenziate dopo gli eventi del 2016. Non è un caso che un analista attento come Maurizio Molinari abbia posto – nel suo articolo su “Repubblica” del 12 luglio 2020 (“Il tallone d’Achille delle tre grandi autocrazie”) –la Turchia sullo stesso piano di Russia e Cina.

(Questo articolo è stato ripreso, con il consenso dell’autore, da “Pagine Ebraiche 24”)

 

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