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Il dovere di ricordare Ambrosoli

43 anni fa l’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane.

11 Luglio 2022 da Stefano Marchesotti Lascia un commento

L’11 luglio 1979 veniva assassinato a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli.

Ormai quasi tutti hanno scordato quell’evento e, soprattutto, la figura di Giorgio Ambrosoli. Un uomo che, al contrario, oggi più che mai rappresenta un esempio per il suo spirito civico e senso del dovere

In quella sera d’estate di quarantatré anni fa, calda ma soprattutto afosa, Ambrosoli, dopo aver trascorso qualche ora in compagnia di alcuni amici, li aveva accompagnati a casa. Al suo ritorno, appena sceso dall’auto, fu affiancato da una Fiat 127 rossa. Una voce domandò: “Avvocato Ambrosoli?“. Avutone conferma un uomo gli disse: “Mi scusi avvocato“. E sparò quattro colpi di pistola. Giorgio morì poco dopo, sull’ambulanza. L’assassino era William Joseph Aricò, un killer conosciuto a New York come “Bill lo sterminatore”, ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Il quale, per questo, fu condannato all’ergastolo e, due giorni dopo la sentenza, venne trovato morto in cella per avvelenamento da cianuro di potassio.

Ambrosoli era nato nel 1933 a Milano da una famiglia di estrazione borghese e profondamente cattolica; il padre, pur essendo avvocato, lavorava in banca e l’educazione che offrì ai figli era fondata su profondi principi e su saldi valori. Durante il periodo degli studi Ambrosoli aderì a un pensiero profondamente liberale.

Laureatosi in legge non accolse il desiderio del padre, che sognava per lui un futuro in banca, e decise di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Sposò Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori, conosciuta ai tempi dell’università, dalla quale ebbe tre figli di cui andò sempre fiero.

il 24 settembre 1974 venne chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona nell’ambito della Banca Privata Italiana, in stato di grave dissesto. Apparve fin da subito chiaro ad Ambrosoli quanto il finanziere siciliano si fosse mosso certo dell’impunità e, proseguendo nelle sue analisi, si convinse sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa a Sindona proprio dal sistema. Grazie alle carte che riuscì a collazionare e alle irregolarità e falsità che scoprì di giorno in giorno, Ambrosoli comprese i legami che Sindona aveva con la politica e con la massoneria deviata di Licio Gelli e della sua loggia P2. Complicità che coinvolgevano anche la mafia siciliana e alcuni settori della magistratura.

Fu in quei giorni che pronunciò una frase dal sapore profetico: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Per i cinque anni successivi Ambrosoli si oppose a Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle una parte preponderante del potere.

Nelle indagini Ambrosoli non si lasciò mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Scoprì tutte le carte e i più sordidi intrecci.

Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento più morbido.

La strategia adottata per fermare Ambrosoli fu un autentico “crescendo rossiniano”. Dagli ammiccamenti si passò in breve ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori.

Lo stesso capitò al maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, suo unico collaboratore che gli fece volontariamente anche da guardia del corpo. Una sera, uscendo dal Tribunale, il maresciallo fu avvicinato da un ex collega che gli propone di lasciare l’indagine, congedarsi dalla Guardia di finanza e accettare un lavoro meglio pagato, perché “hai due bambine da crescere”. Ma Silvio Novembre, così come Ambrosoli, era un uomo di saldi principi.

La politica lasciò solo Ambrosoli, con l’unica eccezione del ministro repubblicano Ugo La Malfa. Non fu certo un caso che un uomo solitamente così prudente e misurato come Giulio Andreotti, dopo l’omicidio di Ambrosoli, ebbe la perfidia di dire: “Era uno che se l’andava a cercare”. Lo stesso Andreotti che, durante un ricevimento al Saint Regis di New York, aveva definito Sindona il “Salvatore della lira” ed al quale Sindona, già colpito da un mandato di cattura con richiesta di estradizione dagli Stati Uniti, scrisse da una suite del Waldorf Astoria: “Illustre presidente, nel momento più difficile della mia vita sento il bisogno di rivolgermi direttamente a lei per ringraziarla dei rinnovati sentimenti di stima che ella ha recentemente manifestato”.

Non era un rivoluzionario, Giorgio Ambrosoli, e nemmeno un oppositore dei governi di allora. Era un conservatore, profondamente cattolico, che aveva militato nella Gioventù liberale. Ma era prima di tutto un uomo delle Istituzioni, e per lui le Istituzioni erano da servire con il senso dello Stato, con il prevalere del bene generale sui conflitti di interesse, con il rispetto delle leggi, dell’etica pubblica e privata. Quando consegnò alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro accluse un biglietto per il governatore: “Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese”.

Corrado Stajano definì Giorgio Ambrosoli, in un bellissimo libro-inchiesta, un uomo libero e solo, eroe borghese che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini e invece, per la passione dell’onestà, si batté contro un genio del male, sorretto da forze potenti palesi e occulte, e fu sconfitto.

Il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito… e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio”.

Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli: una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Unico presente il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file, come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Fu l’ennesima dimostrazione dell’isolamento di una persona per bene, alla quale lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso. Una solitudine che proseguiva anche dopo la morte.

Questo è stato Giorgio Ambrosoli: un esempio per il suo senso delle istituzioni, dello Stato, del bene comune. Oggi più che mai, in un’epoca in cui ogni forza politica inneggia a diritti di ogni sorta – quand’anche discutibili – ma si vergogna a menzionare qualunque dovere, soprattutto verso lo Stato e il bene comune.

Il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane. Quando troveremo normale il sacrificio personale, anche estremo, per la difesa di tali valori civici.

Per questo – anche quest’anno – ho voluto parlare di Giorgio.

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