In un infuocato dibattito sulle cose di Toscana mi capitò di sintetizzare il mio punto di vista coniando un’azzardata massima: Firenze non potrà mai svolgere un ruolo di guida della Regione, né una funzione da capoluogo di un’area vasta, metropolitana che dir si voglia, perché è stata capitale di uno Stato e ha serbato l’orgoglio e la supremazia acquisite in una storia che non si cancella. Una capitale si abbassa malvolentieri al livello di un servizievole capoluogo. Esageravo, era una battuta, ma ripensandoci credo contenga qualcosa di vero. Lo stesso direi, in altra chiave, per Siena e per Lucca. La Toscana è una regione molto plurale ed è arduo affrontare i problemi che l’angustiano in un’ottica di sintesi e secondo una prospettiva unitaria. Ci sono stati tentativi interessanti che magari hanno dato qualche buon risultato, ma hanno avuto vita effimera. Rammento le discussioni di quando facevo parte del Comitato insediato dall’IRPET nei primi anni della sua esistenza. Traggo fuori un tema: l’aeroporto di Peretola. Se penso che il dibattito è diventato un fastidioso romanzone e siamo ogni giorno a discettare sulla lunghezza di una pista mi vien voglia di indicarlo a simbolo di un’incapacità di decidere e di imboccare e affrontare criticamente le sfide delle modernità. È vero che non c’è più la rivalità con Pisa – almeno sulla carta – ma non c’è neppure stata e non c’è una visione che consideri il punto come un problema da risolvere in un quadro regionale. Come un capitolo dell’intricata mobilità . Riguardava solo Firenze? Firenze sta a sé per troppi suoi peculiari aspetti. Rammento un interveto di Cesare Luporini in un convegno della seconda metà degli anni Settanta. Disse che non si doveva parlare di regionalizzazione del partito (e della politica conseguentemente) , ma di “inregionamento”, cioè di mettere nodose e diffuse radici, non di espandere una logica inevitabilmente accentratrice. Ma non voglio abbandonarmi a evocazioni che immalinconiscono per la loro non irriducibile persistenza e perché talvolta le ritroviamo quasi intatte dopo anni e anni di liti e di confronti.
Su Firenze annoto qualche impressione, non so quanto fondata. Fino a che punto – chiedo – la città metropolitana che dovrebbe far capo a Firenze è una realtà ambita? Almeno da sinistra è stata, è una finalità da perseguire con lena e convinzione? È più uno spazio di perenni litigi – mi pare – che di ricerca di soluzioni equilibrate in grado di dare coesione e persuasiva incidenza reciprocamente utile ad un’area urbana chiamata come non mai a conseguire una più alta qualità ambientale, una dislocazione equa di servizi anche rari, una dinamica di collegamenti governati in armonia da poteri integrati. È chiaro che l’impulso per aggregazioni o unificazioni di Comuni dispersi e talvolta inevitabilmente marginalizzati dovrebbe essere accolta da tutta la regione se non si vogliono creare ulteriori scompensi o magari una “Toscana centrale” (?) acchiappatutto. Ma gli ostacoli a concepire la topografia toscana come un sistema multipolare di città e paesi mi pare di fatto caduta nel dimenticatoio. Circa l’arrovellato dibattito sulla Multiutility la Corte dei Conti non ha mancato di contribuire con rigide prescrizioni a complicarlo: è uno dei casi che evidenziano come il vetusto intreccio normativo e le spinte al municipalismo impediscano di affrontare con spirito nuovo una transizione che non si basa su principi e criteri accettati con aperta disponibilità . E le controversie interminabili sull’Aurelia? Non tocco i temi delle sanità, tra i più travagliati. Mi limito, dunque, a Firenze. Per come è percepita da chi non l’abita ma ne avverte, non da oggi, inquietudini, tensioni e delusioni.
Gli interventi che si sono succeduti fin qui hanno avuto molti elementi in comune su quella che Ludovico Quaroni chiamava la città fisica. In primo piano mi pare siano stati inscritti i guasti provocati da un turismo vorace che ha depotenziato enormemente la residenzialità borghese e popolare di quello che si continua (impropriamente) a definire centro storico. Ora si tratterebbe di limitare le licenze per affitti turistici brevi allo scopo di innalzare il tasso di residenzialità, quella che Vittorio Gregotti chiamava “la città dei cittadini”. E si tratterebbe di far questo nelle zone illustri perché ricomprese nell’area del patrimonio Unesco. Il fatto è che si cerca di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da un pezzo. Ogni tentativo che vada con misura in questa direzione è benvenuto, ogni recupero di spazi pubblici ancora utilizzabili a fini sociali è sacrosanto. Ma si procede a sobbalzi con capricci emergenziali o con annunci destinati a restare enunciazioni. Dal momento che il fenomeno del turismo, anzi si dovrebbe dire dei turismi, è destinato a ingigantirsi, occorrerebbe trovare modalità di governo che puntino sulla qualità e stabiliscano priorità ben ponderate. Non mi interessa di chi sia il merito di questa o quella realizzazione. Passi avanti si son fatti. Il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è un capolavoro, forse il più entusiasmante sia per chi a Firenze ci abita che per i viaggiatori desiderosi di capire qualcosa di quanto vedono. Il Teatro del Maggio è un’opera che muta stupendamente – nonostante gli errori finanziari e non solo – l’offerta, la seduzione culturale . Anche l’arte contemporanea può vantare esperienze che hanno slacciato Firenze da un culto pigro dell’eredità antica. Non stendo un elenco. Non mi piace la perenne controversia sugli Uffizi. E non mi convincono i toni e le trovate di Eike Schmidt. Mi sembra assai confusa la linea dei cosiddetti Uffizi diffusi: un surrogato di quello che si dovrebbe promuovere : agire nel senso della multipolarità, sfoltire l’ammassamento di tutte le bellurie possibile del centro e costruire uno stabile sistema dove i beni culturali comuni abbiano rapporto e coinvolgano le “periferie”. L’attenzione del direttore è imperniata sul cuore delle Gallerie e, se è comprensibile, non si giustifica in un’ottica che si proponga di elevare la qualità del territorio su larga scala. L’ostilità tra istituzioni in questo campo è deleteria e il più delle vote avvelenata da demagogia. Se n’è avuto un esempio quando si è trattato di immaginare un nuovo destino per lo stadio: si sono ascoltate proposte semplicemente distruttive mentre il problema è inserirlo in un contesto più attrezzato e confacente serbandone la straordinaria architettura. Vedo che mi soffermo eccessivamente su questioni museali e dintorni. Aver destinato i locali del Tribunale alla Fondazione Zeffirelli è stato un obbrobrio che dimostra come non si sappiano soppesare i valori reali e si preferisca avventurarsi in imprese non sorrette da una seria riflessione estetica e filologica. Si dovrebbe pensare di più agli spazi del vivere quotidiano, ai servizi necessari a tutti. Ma sovente – cito la questione dell’Alta Velocità e le perplessità suscitate dal benefico reticolo delle tranvie – ci si scontra con la paura o i timori di una modernizzazione irrinunciabile. Uso il termine “modernizzazione” con cautela perché collegato al concetto del Moderno e del Postmoderno e sappiamo quanti interrogativi trascinano con sé. Il pericolo è che la “modernità” che si vuol innestare si risolva in progetti che puntano più sull’attrattività effimera che su un meditato mutamento di paradigma. E non entro nel merito di esposizioni e di scelte che porterebbero il discorso assai lontano. L’agricoltura che attornia Firenze si è troppo arresa alla rendita del piacevole soggiorno, ad un agriturismo che sottovaluta l’agricoltura e si accontenta di farsi pausa distensiva per facoltosi pensionanti. È doveroso sostenere la presenza di sedi di tante Università straniere e di istituzioni culturali di primo livello che possono favorire un “turismo scientifico”, come è stato detto, e rafforzare un’internazionalità non affidata al clamore delle grandi firme della moda e simili. E l’artigianato superstite avrebbe tutto da guadagnare se si alimentassero i vecchi mestieri che vanno scomparendo e se fosse sovvenuto adeguatamente e si misurasse con un fervore creativo non frenato da un artificioso culto delle rassicuranti tradizioni.
La lunga vigilia elettorale offre ogni giorno spunti di cronaca irritanti. Purtroppo si son varate leggi che personalizzano smodatamente le scelte e mitizzano meccanismi come le cosiddette primarie che, se non ben regolate, servono solo ad accrescere tensioni interne, a enfatizzare i dissensi, ad acuire rivalità in partiti che non sono più partiti strutturati e rappresentativi o in raggruppamenti preoccupati di metter su una lista e assicurare promesse non realizzabili. Ogni settimana spunta una candidatura che diventa materia di una commedia da società dello spettacolo. La democrazia si è indebolita drammaticamente. Eppure – e non lo scrivo a chiusa per indorare con un lieto fine una serie di appunti sconnessi – esistono le energie intellettuali e il vigore giovanile, di tanti e tante che hanno la voglia di ridar fiato ad una città che amano – e amiamo – e ha le risorse per imboccare le strade nuove dell’innovazione tecnologica, di un nuovo senso dell’industria, di una ricerca effettuata in Università di prestigio o in sedi qualificatissime come l’Istituto Universitario Europeo. E desiderano governare Firenze e viverla in una fase travagliata di “rigenerazione urbana” o come si voglia chiamare questo periodo di incognite e ferite. Non dico di un nuovo Rinascimento, un nome sprecato a vanvera e buono solo per una banale pubblicità.
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