La guerra del 1940-45 sconvolse l’esistenza di quaranta milioni di italiani, li ridusse alla fame in modo pressoché indiscriminato, ne uccise oltre quattrocentomila, lasciò ai vivi il sapore velenoso della paura e della sconfitta. Gli uomini erano sotto le armi, in luoghi sconosciuti, dall’Africa alla Russia. Altri vennero catturati e sperimentarono una prigionia talvolta durissima. Le donne e le famiglie rimaste a casa furono prese di mira dai bombardamenti, vissero negli scantinati, fuggirono dalle città. Il paese era sofferente, disorientato. Le speranze del 1940 – l’illusione di un conflitto rapido e vittorioso – si erano presto infrante sul muro della realtà. Nel 1943 il suolo italiano diventò il teatro dello scontro tra Alleati e armate tedesche, il regime mussoliniano era crollato, nacque il fascismo repubblicano di Salò, furono i mesi interminabili delle stragi naziste, della guerra civile, della Resistenza. Sembravano dissolversi tutti i punti di riferimento, il Duce aveva fallito, il re abbandonò la sua capitale nelle mani della Wehrmacht, le istituzioni si sbriciolavano. Era la morte della patria. Dopo l’8 settembre, gli italiani diventarono fragili cobelligeranti degli Alleati e tragici nemici dei tedeschi. Nell’isola greca di Cefalonia, quando si arresero dopo aver combattuto per giorni, i tedeschi li sterminarono a sangue freddo, oltre cinquemila tra ufficiali e soldati. Interminabili colonne di fumo salirono dai corpi delle vittime che venivano bruciati. Centinaia di migliaia, nei teatri di guerra, si arresero.
Gli italiani, da quando fu chiaro che la rapida vittoria promessa da Mussolini era una favola, avevano odiato la guerra. Ma non tutti la vissero allo stesso modo, né – potendo scegliere – scelsero allo stesso modo.
Alcuni presero volontariamente le armi e si unirono alle bande partigiane per combattere i fascisti sopravvissuti al crollo del regime e i tedeschi che occupavano parte del paese. Furono dapprima i giovani che volevano sottrarsi alla chiamata alle armi decretata nel 1943 dal governo di Salò. Andavano in montagna sperando di tornare presto nelle loro case, quando tutto fosse finito. Poi quei fuggiaschi vennero inquadrati all’interno di formazioni armate che facevano riferimento ai partiti politici. Motivazioni individuali e motivazioni ideali si mescolarono. Roberto Battaglia, un professore con moglie e figli, decise di prendere la strada temeraria della lotta partigiana dopo aver visitato le Fosse Ardeatine e avere sentito l’odore acre del sangue delle vittime nelle proprie narici. La Resistenza fu un luogo di forti passioni, l’odio per le violenze naziste, la difesa del proprio focolare domestico, i conti in sospeso con vent’anni di dittatura, il miraggio della rivoluzione, la voglia di farla finita con “i padroni”.
E forti passioni albergarono anche dalla parte di coloro – spesso giovani e giovanissimi – che invece decisero di arruolarsi nella Repubblica Sociale, che rifiutarono di rinnegare i valori fascisti sul cui terreno erano cresciuti, che identificavano la patria con l’Italia di Mussolini e si erano sentiti oltraggiati dal “tradimento” dell’8 settembre. Protestavano con angoscia, gli adolescenti come Carlo Mazzantini, di fronte al disfacimento di un regime che era stato il loro mondo. “E noi che ci siamo nati dentro? Che non abbiamo conosciuto altro che quello?”, dicevano, “A noi che ci rimane? Chi siamo noi adesso?”. E si presentavano nella prima caserma che trovavano, chiedendo di essere arruolati fra le camicie nere. “Noi non vogliamo arrenderci, noi vogliamo andare a combattere”.
Ma – gli uni e gli altri – furono pochi. Un centinaio di migliaia, nel momento di massima diffusione, i partigiani conteggiati dallo Stato Maggiore della Repubblica Sociale, che li qualificava come “banditi”. Dagli ottantamila dell’estate 1944 fino ai duecentomila dell’aprile 1945, secondo Ferruccio Parri, il leader della Resistenza. E, dall’altra parte, alcune centinaia di migliaia di combattenti di Salò – che comprendevano tuttavia anche i coscritti – e quasi mezzo milione di tesserati al Partito fascista repubblicano. Quel che sarebbe accaduto in seguito, e cioè la costruzione dell’immagine di un’Italia antifascista che con gli Alleati aveva liberato il paese da nazisti e “repubblichini”, non può far dimenticare i numeri. Quell’immagine, ha scritto Aurelio Lepre, era una leggenda. Coloro che nel 1943-45 scelsero di gettarsi nella battaglia furono una piccola minoranza. “Il movimento partigiano si fece moltitudine pochi giorni prima della capitolazione tedesca”, ha scritto polemicamente Renzo De Felice, “quando bastava un fazzoletto rosso al collo per sfilare tra i vincitori”. Mettendo assieme veri combattenti, fiancheggiatori, partigiani dell’ultima ora, parenti stretti e lontani, amici e vicini, De Felice calcolava che fossero stati coinvolti nella guerra civile dai tre milioni e mezzo ai quattro milioni di individui. “Pochi, rispetto ai 44 milioni di persone che abitavano allora l’Italia”.
Gli altri quaranta milioni restarono in attesa ansiosa, guardarono agli avvenimenti e spesso li soffrirono ma senza fare scelte, intendevano sopravvivere, non sempre facevano grande differenza tra partigiani e fascisti e neppure tra Alleati e tedeschi. Furono quella che poi venne definita – con termine svalutativo – la zona grigia. Gli attendisti. Seguivano con diffidenza i fatti della politica, la nascita del governo Badoglio, il riorganizzarsi dei partiti, il proselitismo delle sinistre, non si facevano illusioni. Covavano rancore verso gli arricchiti dalla guerra e temevano per il posto di lavoro, assistevano al crollo del potere d’acquisto della lira, ai prezzi che rispetto all’anteguerra erano aumentati decine di volte. E intanto le distruzioni provocate dai bombardamenti li costringevano non di rado alla coabitazione con altre famiglie; la metà degli appartamenti era priva di acqua corrente, la gran parte mancava dei servizi igienici. Valori, prospettive, risorse materiali, tutto sembrava appartenere al passato.
Erano stati fascisti. Gli italiani avevano dato per lunghi anni un vasto consenso al regime. Per convinzione o per prudenza avevano preso la tessera del partito. Sembravano apprezzare un governo che li privava delle libertà politiche, bandiva i partiti, censurava le opinioni, ma aveva messo fine al marasma cruento del primo dopoguerra e garantiva l’ordine pubblico. Avevano tratto vantaggio dalla crescita delle burocrazie, avevano salutato con soddisfazione le opere pubbliche del regime, le paludi bonificate, le nuove città, i treni in orario, le vacanze dei figli nelle colonie marine. Non erano rimasti indifferenti ai miti della nazione fascista, ai sogni imperiali, al primato di Roma. Si erano compiaciuti vedendo il cavalier Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmare i Patti Lateranensi. E d’altronde molti – intere generazioni – erano cresciuti nelle scuole pubbliche con le loro divise di balilla e i moschetti a tracolla, erano diventati avanguardisti, avevano fatto il liceo classico, assorbivano la cultura ufficiale. Se non erano stati convintamente fascisti, avevano ammirato il Duce, fieri della sua fisicità esibita, certi della sua buona fede, se ne sentivano rassicurati. E anche coloro che avevano mostrato insofferenza nei confronti della retorica di regime erano comunque rimasti fedeli ai valori correnti, alle gerarchie, rispettosi del partito. Criticavano a bassa voce quel che sembrava opinabile, la cautela era moneta corrente. A differenza che in Germania, peraltro, il regime non aveva fatto strage degli avversari politici, la stagione delle violenze squadriste era finita presto, comunisti e socialisti venivano mandati al confino a Ponza, a Ventotene o in qualche remoto villaggio del Sud. Dal 1927 al 1943 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato condannò per reati politici meno di cinquemila individui e ne mandò a morte trentuno. Nulla di paragonabile alle mattanze naziste o sovietiche.
Finché il regime non portò il paese in guerra, consenso e indifferenza furono predominanti. Nel 1940, “in Italia restavano sì e no poche migliaia di persone, su 42 milioni di abitanti, a opporsi al regime”, ha ricordato Galli della Loggia citando Giorgio Amendola. Anche prima del fascismo, del resto, gli italiani avevano partecipato poco alla vita politica. Alla vigilia della Grande Guerra godevano del diritto di voto meno di otto milioni e mezzo di individui, il 25 per cento della popolazione. Né i liberali, né i socialisti, né i cattolici li avevano addestrati alla politica e il fascismo, perciò, non aveva avuto il problema di smantellare un sistema di partiti forti e organizzati come i nazisti in Germania. La dittatura mussoliniana era durata vent’anni, contro i dodici di Hitler e i cinque del regime di Vichy. C’era stato tutto il tempo per acculturare e irreggimentare intere generazioni, uomini, donne, giovani, bambini.
Naturalmente, con la scoperta di quanto il paese fosse impreparato alla guerra e infine con la sconfitta, coloro che avevano appoggiato il regime dovettero rivedere le loro credenze. Non si consideravano più fascisti. Ma non diventarono neppure antifascisti. E quando, il 25 aprile 1945, a Genova, a Torino, a Milano, i partigiani sfilarono armati tra ali di folla, ammucchiandosi sui camion militari, sventolando bandiere e cantando Fischia il vento, loro non scesero in piazza. Gioivano per la fine della guerra ma non parteciparono alla festa dell’Italia antifascista. Il paese che, dopo il dolore e la paura, tornava ad affollare le strade era diviso. A coloro che avevano militato nelle bande partigiane o avevano seguito il Duce a Salò, e cioè ai vincitori e agli sconfitti, si mescolavano tutti gli altri, i molti che si erano astenuti dal prendere partito, i milioni ai quali il fascismo aveva inculcato il disprezzo della politica e che ora apparivano diffidenti verso la democrazia.
Quella festa di aprile, del resto, riguardava una parte soltanto del territorio nazionale. La guerra civile e la lotta partigiana avevano coinvolto le regioni centro-settentrionali, il cosiddetto Regno del Sud ne era rimasto estraneo. I meridionali avevano sofferto bombardamenti alleati e violenze naziste, ma non avevano partecipato alla Resistenza e non conoscevano il fascismo di Salò. Quando nel 1944 il governo di Ivanoe Bonomi – già presidente del Comitato di Liberazione Nazionale – li aveva chiamati alle armi per dare il cambio ai combattenti più anziani, in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale erano scoppiate violente proteste al grido di “non si parte!”. A Catania vennero assaltati il municipio e il palazzo di giustizia. A Palermo e in altri centri i volantini che incitavano i giovani a non presentarsi in caserma inneggiavano al Duce e a Hitler. A Ragusa gli scontri con le forze dell’ordine lasciarono sul terreno 15 morti, a Comiso i morti furono 36. Erano stati veri e propri tumulti insurrezionali. Se ne gloriò, in un discorso tenuto a Milano, lo stesso Mussolini. La lontananza dalle passioni che si respiravano nelle regioni settentrionali – quel che Nenni chiamò il “vento del Nord” – appariva clamorosa. Gli eventi del 25 aprile, riferiva il prefetto di Palermo, non avevano destato alcuna emozione in città, la gente mostrava “un senso di apatica indifferenza”. Il Sud si avviava a diventare al tempo stesso il terreno del tradizionalismo politico e la fucina di aspre rivendicazioni antistatali.
Quel che accadde dopo la Liberazione, del resto, finì per destabilizzare ulteriormente la già fragile identità di patria che il nazionalismo fascista aveva portato alla disfatta. Con il collasso del regime, le minoranze armate partigiane intesero rappresentare il paese intero. Nel giro di settimane i partiti si sostituirono al partito-Stato mussoliniano e assunsero il controllo delle istituzioni; aveva preso piede il linguaggio – per molti incomprensibile – della politica. Era il miraggio della “Resistenza al potere”. Sembrava prevalere la capacità organizzativa e l’egemonia culturale delle sinistre, ciò che rendeva ancora più difficile – per la zona grigia – orientarsi nella nuova democrazia, capire cosa fosse. Le sinistre parlavano di una democrazia progressiva che avrebbe dovuto approdare al nuovo mondo dell’egualitarismo. Diventava verbo ufficiale un antifascismo il quale rischiava di mettere al bando il senso comune di un’intera popolazione, rinnegando non solo il Duce, ma anche il re, la nazione, talvolta la Chiesa. Per le schiere degli italiani non più fascisti e non antifascisti, quel perentorio “vento del Nord” costituiva un invito al cambio di casacca più o meno furtivo, al camaleontismo. “I presenti non sono mai stati fascisti”, avrebbe annotato nel 1946 il velenoso Leo Longanesi. Furono molti a passare armi e bagagli al comunismo, altri si rifugiarono sotto le bandiere cattoliche. Ma il grosso di una popolazione storicamente acerba sul piano della partecipazione politica si limitò a sviluppare blande forme di ostilità nei confronti delle nuove istituzioni e atteggiamenti di insofferenza o di allarme nei confronti dei partiti e, data la forza organizzativa e comunicativa delle sinistre, nei confronti in particolare dei partiti di sinistra. Emergeva – soprattutto nell’Italia meridionale, da Roma in giù – quel che Roberto Pertici ha chiamato “un diffuso moderatismo di massa” e che, nelle circostanze dei primi governi democratici a forte presenza di sinistra, stava diventando “un anticomunismo di massa”. L’effetto collaterale del verbo antifascista fu un’opinione pubblica che, rifiutando l’alternativa troppo amara fra un passato diventato innominabile e una veloce abiura, si rifugiava semplicemente tra le mura di casa, a covare con i propri cari quel certo scetticismo nei confronti della politica.
(questo scritto è un estratto dal libro di Paolo Macry “La Destra italiana” ed è ripreso con il consenso dell’autore)
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