Le risorse di questo pianeta – l’unico che abbiamo a disposizione – sono per forza di cose finite, inevitabilmente preziose e di conseguenza da sfruttare con criterio e parsimonia. Dovrebbe questa essere una convinzione condivisa e universale e altrettanto universalmente dovrebbe essere sentito l’obbligo morale nei confronti delle generazioni che ci seguiranno e degli altri abitanti del pianeta, flora e fauna, di lasciare loro un ambiente nelle migliori condizioni possibili. Un vero e proprio imperativo categorico, assoluto e non negoziabile. Insomma l’ambiente come “bene pubblico” per eccellenza.
Invece… altro che condiviso. Il tema ambientale è ostaggio di uno scontro tra opposti estremismi.
Esiste una consistente – non maggioritaria ma consistente – porzione di opinione pubblica per cui ogni istanza ambientalista è un baloccarsi inutile di esaltati, di eccentrici sognatori e, poche ciance, l’economia non si deve fermare, viva i SUV e bando ai perditempo. Una categoria questa con purtroppo illustri rappresentanti, a cominciare dall’inquilino della Casa Bianca, che tra i primi atti del suo insediamento ha detto di non essere a big believer on man-made climate change. In effetti, senza volerla buttare in politica, va detto che oggettivamente quest’atteggiamento è molto più comune tra chi è orientato a destra. Nonostante, come detto, le motivazioni che dovrebbero indurre a comportamenti ben diversi siano universali. Ma evidentemente l’individualismo, valore tipicamente di destra, in taluni è tale da indebolire la percezione degli obblighi morali nei confronti delle altre specie e della discendenza futura (anche se tra questa c’è la loro progenie).
Dal lato opposto della barricata gli ambientalisti senza se e senza ma. Che commettono a mio parere un grave errore concettuale. Forti della natura assoluta dell’imperativo categorico di cui sopra, ne fanno un’ideologia e l’unico elemento da considerare nelle scelte da prendere quando invece queste devono tenere conto di molte altre variabili, economiche e sociali. Detto in altri termini, un conto è constatare che la tutela dell’ambiente è in principio un vincolo imprescindibile, un altro considerarlo come l’unico termine di valutazione. Peraltro spesso questa operazione si ritorce contro le stesse istanze ambientali anche perché gli obiettivi sono sovente scelti male: nel corso della mia attività professionale mi sono per esempio imbattuto in fanatici che erano sinceramente convinti che le linee elettriche di alta tensione facessero venire il cancro (ed erano così strumentalizzati da chi la linea elettrica non la voleva sul suo percorso per meri motivi economici).
Vediamo a tal proposito due casi significativi emersi in questi giorni nella cronaca della mia città ma sono certo che ovunque si potrebbero trovare esempi di questo tipo.
L’inceneritore.
Oggi i rifiuti solidi urbani e non riciclabili che costituiscono il cosiddetto CSS (Combustibile Solido Secondario) prodotti da Veritas (la municipalizzata dei rifiuti) sono bruciati dall’Enel nel forno della centrale elettrica di Fusina, dotata appunto di un forno che brucia assieme al carbone anche CSS. A breve, secondo il piano nazionale di spegnimento di tutte le centrali elettriche a carbone, il forno verrà dismesso. Bisogna dunque trovare un’alternativa. Che giocoforza è una di queste: 1) costruire un altro forno (appunto la soluzione di Veritas); 2) spedire il CSS, pagando, in un altro inceneritore; 3) conferirlo a discarica (con impatti ambientali conseguenti). I contestatori dell’opera si oppongo all’ecomostro – che si badi bene, non farebbe che riprodurre quello che già oggi avviene – e propongono una quarta soluzione: non produrre più CSS. Peccato che sia irrealizzabile perché fisiologicamente ci sarà sempre una quota di rifiuto non riciclabile per tutta una serie di motivi facilmente comprensibili. Anche i Comuni più virtuosi arrivano al 20 del rifiuto totale ma questo va smaltito (in discarica o bruciandolo). Veritas non è lontanissima da queste best practices, può migliorare certamente (e gli indicatori sono in costante progresso) ma, anche tenuto delle diverse decine di milioni di presenze turistiche che non sono completamente governabili ai fini della differenziazione, a zero non si arriverà mai. E comunque non entro i tempi della conversione della centrale di Fusina.
Dunque, se la spunteranno gli oppositori dell’inceneritore: o troviamo qualche altro forno (alla faccia della valenza universale del tema) o mandiamo a discarica (peggio che peggio). Il tutto con certo e significativo aumento del costo delle bollette. È questo il risultato più auspicabile?
Il nuovo stabilimento bagni agli Alberoni.
Agli Alberoni (estremità meridionale del Lido di Venezia) esistono numerose strutture un tempo adibite a colonie estive per bambini. L’epoca delle colonie è tramontata da un pezzo e oggi quelle strutture (alcune di vero pregio) deperiscono abbandonate. Una di queste, la Colonia Marina di Padova, sta in una location effettivamente molto pregiata e un gruppo privato ha pensato di metterci un pacco di soldi per recuperarla e farne un albergo-resort di alta fascia da 120 stanze. Come tutti i resort in località di mare che si rispettano, necessita di avere un accesso alla spiaggia anche se magari simbolico (la maggior parte degli ospiti se ne sta in piscina). Il progetto infatti prevede anche di riesumare l’esistente concessione balneare della stessa Colonia di Padova (non esercita da anni), a fianco dello storico Stabilimento Bagni Alberoni, peraltro con strutture molto leggere e in parte amovibili. Se l’operazione avrà successo, si sarà recuperato un rudere, valorizzata una location pregiata, l’investitore farà dei soldi, pagherà delle tasse, darà lavoro a parecchia gente, direttamente e indirettamente. Unico “costo” ambientale: l’espungere i ciuffi di vegetazione (che ho scoperto chiamarsi “sparto pungente”) che, dopo la chiusura della colonia hanno lentamente “ripopolato” la parte di spiaggia più interna. Siamo in un’oasi naturalistica molto ampia (160 ettari), un ambiente dunale con specie vegetali tipiche dell’alto Adriatico e sede di nidificazione per l’avifauna. Quella di cui parliamo però è un’area separata dal nucleo dell’oasi di fianco allo stabilimento esistente quindi un’area già antropizzata. In tutto l’oasi degli Alberoni misura 160 ettari. Qui stiamo parlando di togliere mezzo ettaro (a farla grande) di sparto pungente. Insomma, impatto ambientale di fatto inesistente.
Ciononostante, le associazioni ambientaliste parlano di “speculazione edilizia” e di intervento ecologicamente devastante. E torniamo daccapo: è più giusto e saggio valutare in modo assoluto il “valore” del mezzo ettaro di sparto pungente oppure mettere sull’altro piatto della bilancia il recupero dell’area dell’immobile, la creazione di un’attività che porta indotto (in un’area decisamente vocata a questo) in termini di economia, posti di lavoro?
Due esempi che mostrano che la trattazione “monodimensionale” dei problemi porta a esiti complessivamente negativi alla collettività e, peggio, con risultati peggiorativi anche dal solo punto strettamente ambientale. Naturalmente la stessa monodimensionalità in senso opposto va contestata a coloro (temo non pochi) che dicessero “massì, chissenefrega degli uccelli e dell’oasi, bisogna far girare l’economia..”.
Ecco, equilibrio e raziocinio. Merci rare…
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