Di fronte ai risultati, contestati per presunti brogli da parte dei monarchici, Re Umberto II non cede alle spinte di chi lo vuole indurre a resistere e a denunciare l’esito referendario. Non può essere questo un punto a favore della dinastia? E una domanda su un bilancio finale
Prima di rispondere alla tua domanda è necessario chiarire il contesto che precedette il referendum dl 2 giugno 1946.
L’8 settembre fu l’inizio di una “tragedia” che divise e lacerò il tessuto nazionale ma anche quello istituzionale.
Circa 650 mila soldati italiani, sparsi nei vari fronti, rifiutarono l’adesione alla Repubblica sociale, lo stato fantoccio di Mussolini e finirono nei campi di concentramento. Di essi 32 mila non tornarono più a casa. Lo sfascio dell’esercito, di cui il Re era il capo per lo Statuto richiamato dal Gran Consiglio il 25 luglio 1943, segnò anche lo sfascio dell’apparato dello stato e la inevitabile crisi della democrazia.
In più il paese si trovò diviso in due. Il sud, dopo che il Re, una parte del governo, i vertici delle forze armate, la famiglia reale fuggirono da Roma per Brindisi, si trovò sotto il controllo del governo Badoglio, ma nei fatti occupato dalle truppe angloamericane che lentamente, troppo lentamente avanzavano verso il Nord. Nel Nord, invece, la Repubblica di Salò dominava come potere subalterno all’alleato nazista, mentre si formavano i primi nuclei partigiani.
In sostanza l’Italia era spezzata in due, ma anche incerta sul suo assetto istituzionale. Non a caso il governo Badoglio venne concepito anche come strumento per emendare l’ordinamento istituzionale dalle alterazioni introdotte dal fascismo, dal Gran Consiglio alla Milizia Nazionale.
Il principe Umberto, che era stato riluttante a lasciare Rom, peraltro resa indifendibile e dichiarata aperta, per volere della Santa Sede, ma di fatto comandata dal Maresciallo Kesserling, era in una situazione di impotenza.
Nella crisi istituzionale, ci cui Badoglio si rese conto, si inserì il Comitato centrale di Liberazione nazionale (Ccln) formato dagli esponenti dei partiti antifascisti, chiedendo un cambio di governo (16 ottobre 1943). Il 24 ottobre lo stesso Badoglio consegnò al Re una lettera in cui si prospettava l’abdicazione del sovrano, la rinuncia al trono da parte del Principe di Piemonte e il conferimento della Corona al Principe di Napoli, assistito da un reggente. Di tutto di più, ma era chiaramente una linea politica contorta anche per coloro che, come Enrico De Nicola o Benedetto Croce, si proponevano di salvare la monarchia. Una accelerazione della crisi politico-istituzionale, mentre la guerra macinava le sue vittime e la guerra civile si esprimeva non solo nella lotta contro i nazifascisti, ma anche con azioni di vendetta “di classe”, si manifestò a partire dal gennaio 1944, con il congresso del Cln a Bari. Quando persino Benedetto Croce chiese l’immediata abdicazione del Re e il nuovo governo Badoglio, con i ministri designati dai partiti antifascisti, segnava un ulteriore passo in avanti della crisi della monarchia. Persino i plenipotenziari angloamericani chiesero al Re di abdicare e di affidare al Principe di Piemonte la Luogotenenza. Lo stesso Palmiro Togliatti, capo del PCI, sembrava tergiversare sulla abdicazione, specialmente perché il Re l’aveva subordinata alla liberazione di Rom. I ministri del nuovo governo Badoglio, Togliatti compreso, si dichiararono ostili alla monarchia ma vincolati alla “tregua istituzionale” necessaria in funzione della lotta di liberazione. In realtà Vittorio Emanuele III già pensava di lasciare l’Italia per rifugiarsi in Egitto o in Portogallo.
Il 5 giugno 1944 il Re firmò il decreto di nomina di Umberto a Luogotenente generale con i relativi poteri previsti dallo Statuto. Nello stesso tempo, però, i partiti del Ccln chiesero le dimissioni di Badoglio e la formazione di un governo “schiettamente democratico” formato da elementi sicuramente antifascisti per lottare contro i tedeschi e per poter preparare la consultazione popolare per la scelta della forma istituzionale.
Alla fine il Luogotenente accettò la linea del Ccln e la linea di demandare la scelta della forma istituzionale ad una Assemblea Costituente. Era come se Umberto si fosse rassegnato a mettere in gioco le sorti della monarchia.
La strada maestra era quella di affidare al popolo italiano la scelta della forma istituzionale e l’elezione a suffragio universale diretto, maschile e femminile, di una Assemblea Costituente.
Umberto, con una intervista al New York Times (31 ottobre 1944) sostenne che la scelta della forma istituzionale, monarchia o repubblica, fosse demandata non ad una Assemble costituente, ma ad un referendum popolare.
Il 26 novembre 1944 il governo Bonomi, che era succeduto al secondo Badoglio, rassegnò le dimissioni da capo del governo. Le dimissioni erano motivate dal disaccordo del PCI sulla questione delle epurazioni nelle amministrazioni, ma anche sulla proposta del Luogotenente di indire una consultazione referendaria sulla questione istituzionale. Nei fatti i partiti, PCI in testa, temevano una consultazione popolare diretta.
Quando nel dicembre del 1944 si formò il nuovo governo Bonomi, con le vicepresidenze a un democristiano come Giulio Rodinò e a Palmiro Togliatti, il governo delegò il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia a rappresentarlo nei territori ancora occupati.
La guerra civile si intrecciò a quella più generale, con azioni partigiane e feroci rappresaglie della Wehrmacht che insanguinarono molte città e cittadine. Il Paese, insomma, era spaccato e in balia di un incerto futuro con il sangue che colava da tutte le parti.
L’esercito che aveva messo insieme Mussolini, una volta liberato dai tedeschi con una operazione dagli incerti risvolti, contava circa 50 mila effettivi, più una milizia di partito di 150 mila uomini, la Guardia Nazionale Repubblicana, impiegata contro i partigiani e nel rastrellamento degli ebrei. Alcuni erano giovani idealisti, spesso fanatici, vittime della retorica mussoliniana.
Con la partecipazione alla Resistenza i partiti avevano in parte riempito il vuoto aperto dalla crisi del fascismo. Tuttavia il clima di epurazione che aveva colpito in alto, ora diventava sempre più lacerante e spingeva verso atteggiamenti di antifascismo tardivo. L’Alto Commissario per l’epurazione, Sforza, deferì all’Alta Corte 309 dei 326 senatori in carica. A Verona furono eseguite le condanne a morte dei firmatati dell’ordine del giorno di sfiducia a Mussolini.
La “tregua istituzionale” era una pia illusione e il clima era sempre più arroventato. La sostituzione del governo Bonomi, giustificata dall’esigenza di un governo capace di ristabilire l’ordine e il pieno rispetto della legge, favorì la formazione del governo presieduto da Ferruccio Parri (21 giugno 1945) che per la monarchia era un segnale di ostilità. Togliatti assunse la Giustizia e Parri anche gli Interni. Nenni ebbe il Ministero della Costituente e Brosio quello della Consulta.
Il 5 aprile si costituì la Consulta nazionale, i cui membri furono designati dai partiti maggiori, che però nessun voto aveva per ora legittimato, più esperti indicati dalle categorie e organizzazioni sindacali, culturali e dei reduci.
Si contavano 73 socialisti, 64 liberali, 61 comunisti, 44 democratici del lavoro, 27 indipendenti e 11 esponenti dei partiti non compresi nella “esarchia ciellenistica”.
L’orientamento repubblicano, palese o taciuto, era prevalente.
Il 23 febbraio 1946 l’Assemblea approvò lo schema della legge elettorale. La guerra era finita ma non il clima di guerra civile e lo scontro fra repubblicani oltranzisti come gli azionisti e i difensori, pochi, della monarchia come Roberto Lucifero d’Aprigliano.
In realtà nel Sud l’autorità della monarchia non era mai venuta meno e la presenza dei partiti antifascisti era meno influente.
Nel novembre del 1945 Parri fu costretto a dimettersi dopo il ritiro dell’appoggio della DC e le accuse del PLI contro il governo troppo identificato con il CLN.
Il 10 dicembre 1945 si formò il primo governo di Alcide De Gasperi, con Nenni vicepresidente e Ministro della Costituente e Palmiro Togliatti al Ministero di Grazia e Giustizia.
Nel mese di marzo aprile-aprile 1946 si tennero le elezioni amministrative: 2271 comuni andarono ai socialcomunisti, 2000 ai democristiani, 99 ai liberali. Il clima di lotta civile si era attenuato e le libere elezioni erano una buona pratica. Il 25 aprile 1946 i democristiani riuniti a congresso si espressero a gran maggioranza a favore della Repubblica, sostenuta anche da Nenni e Togliatti. Persino i liberali e l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini sollecitarono l’abdicazione del RE. Il Luogotenente fece lo stesso e così Vittorio Emanuele II fu costretto ad abdicare.
Così Umberto II divenne Re in una situazione oramai più che compromessa per la monarchia. Mancava meno di un mese allo svolgimento del referendum che si svolse il 2-3 giugno del 1946. Su 28 milioni di voti potenziali i risultati a favore della Repubblica furono risicati: 12.717.923 a favore, 10.719.824 per la monarchia e 1.498.136 schede nulle o bianche per un totale di 24.915.343 votanti. I brogli che ci furono si concentrarono sulle schede annullate, a volte per un semplice “sbaffo” di matita.
Contro quell’esito furono subito presentati ricorsi, ma era evidente che avevano vinto i repubblicani, anche se per poco.
La vera questione destinata a pesare era quella della divisione in due dell’Italia e non solo fra Nord e Sud. La Patria non era morta, ma andava curata, mentre i “medici”, cioè i partiti, più che altro curavano se stessi. Non a caso sarebbe nata la repubblica dei partiti.
Non a caso Togliatti il 22 giugno del 1946 aveva firmato l’amnistia e molti degli amnistiati diventarono fervidi antifascisti ed anche comunisti.
In effetti le priorità dei grandi partiti di massa e delle stesse forze alleate era quella di normalizzare la società e chiudere il tempo delle vendette e della guerra civile. Per imboccare la via della democrazia repubblicana.
E che fece Umberto II? E che avrebbe potuto invece fare? Si può affermare che il lungo viaggio attraverso il fascismo alla fine avvenisse in un regime totalitario ma non del tutto, in cui lo Statuto albertino aveva retto nel tempo garantendo, eliminate le superfetazioni apportate dal regime, un ordinato trapasso alla democrazia ed alla repubblica?
In effetti il fascismo o meglio Mussolini puntava a creare il sistema totalitario a partito unico, ma non poteva non tener conto della Monarchia e dei poteri che ad essa riservava lo Statuto albertino e tanto meno poteva trascurare la Chiesa che anche con il Concordato manteneva una forte influenza nella società grazie all’associazionismo cattolico ed al sistema educativo
In più, l’ossatura dello stato e delle imprese a partecipazione statale ereditate dal periodo fascista, nonché la struttura dello “stato sociale”, il sistema pensionistico e quello assistenziale, per non parlare di quello bancario, tutti erano pronti a passare dal fascismo al postfascismo. Sindacati e partiti diedero una mano. Si pensi agli accordi sui minimi salariali agli operai del Nord, a quelli fra CGIL e Confindustria sull’indennità di “contingenza” sul costo della vita in un paese a forte svalutazione della moneta, alla parità salariale alle donne. Si operava per la stabilizzazione e in questo senso andava anche l’accordo generale del maggio 1946 per colmare il divario tra Nord e Sud.
Le tensioni però erano ancora fortissime, sia sul piano politico che sindacale.
Il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III abdicò a favore di Umberto, che aveva sino ad allora l’incarico transitorio di Luogotenente del Regno. Si temette, allora, una sorta di colpo di stato monarchico con la complicità degli alti gradi militari e altre forze legate alla monarchia. Si temette uno scontro armato e il Comando dei Carabinieri predispose misure di sicurezza tali da prefigurare una sorta di stato di guerra. Tuttavia anche le forze alleate spingevano per la stabilizzazione. Lo stesso PCI, nonostante la continua mobilitazione degli attivisti e la forte conflittualità sociale corroborata dal mito staliniano e dall’oro di Mosca, non poteva andare più in là della “doppiezza togliattiana” e dell’ambiguità della democrazia progressiva. I socialisti poi, ancorché divisi, come si era visto nel congresso di Firenze dei mesi precedenti al referendum, rimasero prigionieri del mito dell’unità della classe operaia e dell’alleanza con il PCI. Alle elezioni del 2 giugno il PSIUP prese il 20,7% e 115 seggi e il PCI il 18,9% e 104 seggi. Ma la DC prese il 35,2% e 207 seggi, diventando il partito di maggioranza relativa. I liberali il 7% e 41 seggi, i repubblicani il 4,4% e 23 seggi, gli azionisti l’1,5% e 7 seggi, una vera delusione, mentre notevole fu l’affermazione dell’Uomo qualunque con il 5,3% dei voti e 30 seggi.
Il Re da un mese, Umberto II, che non avrebbe voluto la combinazione fra referendum e voto per l’assemblea, protestò per i brogli e, pur non accettando il risultato del voto, si recò in esilio.
Forse fu la scelta migliore e sarebbe stato “generoso” da parte della Repubblica tenerne conto. In futuro.
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