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Solo Riformisti

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Il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi scese sotto lo zero all'inizio del 2019 e lì è rimasto fino a stamattina.  Anche se è subito tornato sotto lo zero si è interrotta una dinamica  e il fatto avrà conseguenze sul costo del nostro debito pubblico.   

L’aumento dei tassi di interesse tedeschi

Il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi scese sotto lo zero all'inizio del 2019 e lì è rimasto fino a stamattina.  Anche se è subito tornato sotto lo zero si è interrotta una dinamica  e il fatto avrà conseguenze sul costo del nostro debito pubblico.   

20 Gennaio 2022 da Fabio Colasanti 3 commenti

Oggi, giovedì 20 gennaio, all’apertura dei mercati il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi a dieci anni è stato leggermente positivo.   Questo valore era stato in territorio positivo per l’ultima volta agli inizi del 2019.   Questa notizia ha conseguenze importanti per la nostra politica economica e per le valutazioni che daremo di ogni futura proposta di politica economica.

Dall’inizio dell’unione monetaria europea fino alla crisi finanziaria del 2008/2009, il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi in euro a dieci anni era stato attorno al quattro per cento.  I tassi di interesse sui titoli di stato in euro degli altri paesi dell’unione monetaria erano su valori molto vicini.   I tassi più alti erano sui titoli di stato greci con valori vicini al cinque per cento.   Gli spread – gli scarti rispetto al tasso d’interesse sui titoli tedeschi – erano molto bassi, inferiori ai cento punti base (un punto percentuale).

La situazione cambiò radicalmente con la crisi dei debiti sovrani nell’unione monetaria europea esplosa con la richiesta di aiuto del primo ministro greco George Papandreu del 26 aprile 2010.   Questo portò ad uno spostamento delle preferenze di investimento dai titoli dei paesi con finanze pubbliche in difficoltà verso i paesi considerati più sicuri.   E nemmeno l’aprirsi di un grosso scarto (spread) tra i rendimenti offerti sui titoli del primo gruppo di paesi e quelli dei paesi più sicuri frenò molto questo spostamento.

Il momento decisivo, più che la richiesta di aiuto dell’aprile 2010, fu la decisione presa da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, nell’ottobre di quello stesso anno, di iniziare la preparazione di una ristrutturazione del debito pubblico greco.   Questa decisione, contraria a quella iniziale del maggio 2010 di prestare alla Grecia tutti i fondi necessari per poter rimborsare i suoi titoli di stato in scadenza, fu presa sulla base di una valutazione più realistica della situazione economica greca e per far partecipare allo sforzo collettivo di aiuto alla Grecia anche le banche.   Nell’eufemismo diplomatico, la decisione di procedere ad una ristrutturazione del debito pubblico greco fu chiamata “Private Sector Involvement” (partecipazione del settore privato).

L’annuncio della preparazione della ristrutturazione del debito pubblico greco (default) fece nascere il dubbio che anche altri paesi membri avrebbero potuto andare in default e che non fosse più sicuro che l’unione monetaria europea potesse continuare ad esistere, almeno nella sua configurazione di quel momento.   Il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi a dieci anni scese attorno al due per cento mentre quelli sui titoli irlandesi e portoghesi superarono il sette per cento portando questi due paesi a chiedere l’aiuto internazionale.   Anche i tassi di interesse sui titoli spagnoli e italiani raggiunsero nell’autunno del 2011 un livello simile.   Ma la reazione dei governi di questi due paesi evitò la necessità di un aiuto internazionale e fu quasi identica: le forti restrizioni di bilancio decise dai governo Rajoy e Monti (con due conseguenti recessioni quantitativamente identiche).

Gli accordi politici sul futuro dell’unione monetaria europea raggiunti nel consiglio europeo del 29 giugno 2012 permisero poi a Mario Draghi di lanciare il suo famoso “Whatever it takes” (26 luglio 2012).   Ma i risultati dell’azione della BCE sulla riduzione dei tassi di interesse e degli spread non furono immediati.

Con l’inizio del 2015 ed il lancio da parte della BCE di una politica monetaria ancora più accomodante (Quantitative Easing) le cose cambiarono di nuovo portando il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi a livelli vicini allo zero e a una generale forte riduzione degli spread all’interno dell’unione monetaria.

Il tasso di interesse sui titoli di stato tedeschi scese sotto lo zero all’inizio del 2019 e lì è rimasto fino a stamattina.    Il passaggio di questo tasso di interesse a valori leggerissimamente positivi ha soprattutto un valore psicologico, nel corso della mattinata il tasso è anche sceso di nuovo al di sotto dello zero.   Ma, come spesso succede, il raggiungimento di certi valori psicologici porta l’attenzione su dei trend fondamentali che erano stati sottovalutati.

Quello che è spiacevole in questo caso è che il ritorno del tasso di interesse sui Bund a valori positivi non sia dovuto ad un cambio di politica da parte della BCE, ma al comportamento dei mercati che reagiscono alle notizie sull’andamento del tasso di inflazione e sull’andamento dei tassi di interesse sui titoli di stato in altre monete.   Oggi il rendimento dei titoli di stato americani in dollari a dieci anni è dello 1.84 per cento, ben superiore al rendimento dei titoli tedeschi con la stessa scadenza ma emessi in euro.   Il tasso di cambio tra le due monete assorbirà una parte di questo scarto nei rendimenti, ma non potrà comunque permettere che questo aumenti molto.   L’aumento dei tassi di interesse sugli strumenti finanziari in dollari porterà inevitabilmente ad un aumento di quello dei tassi di interesse sugli strumenti finanziari in euro

L’aumento generalizzato dei tassi di interesse sui titoli di stato va di pari passo con un aumento degli spread.  Oggi lo spread italiano è a 142 punti base, il valore più alto da un anno mentre era attorno a 100 punti ancora nell’ottobre scorso.

Sapevamo tutti che i tassi di interesse degli ultimi anni erano una grossa anomalia e che non avrebbero potuto continuare.   Ma gli avvenimenti spiacevoli, anche se attesi, fanno sempre male quando si verificano.   E mi azzardo anche a fare il pronostico che per moltissimi anni non ritorneremo più ai livelli di tassi di interesse che abbiamo conosciuto tra il 2019 ed il 2021.

Inevitabilmente il costo del nostro debito pubblico riprenderà a salire anche se gradualmente.  E siamo già il paese che sopporta il più grosso peso per il pagamento di interessi sul suo debito pubblico.   Nel 2021, gli interessi che abbiamo pagato sul nostro debito pubblico sono stati pari a 3,4 punti del nostro PIL, una cifra di poco inferiore a quello che spendiamo per l’istruzione, ma ben più alta di quanto spendiamo per gli investimenti pubblici.  In media, gli altri diciotto paesi dell’eurozona hanno pagato solo l’un per cento del loro PIL.   La Grecia, la Spagna e il Portogallo, hanno pagato meno di noi, tra il 2,2 ed il 2,6 del PIL.

L’aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato sarà accompagnato da un aumento dei rendimenti delle obbligazioni emesse dal settore privato e dai tassi di interesse sui mutui e sui prestiti bancari.   Questo sviluppo sarà problematico per le nostre imprese che sono fortemente indebitate.   E ne abbiamo un buon numero.   Nel settore immobiliare c’è attualmente una ripresa delle transazioni che molti attribuiscono proprio alla volontà di contrarre un mutuo prima di un probabile aumento del loro tasso di interesse.

Il fatto che il nostro debito pubblico abbia una scadenza media attorno ai sette anni renderà graduale l’aumento degli interessi da pagare.   Ma questa gradualità non potrà impedire che si debba guardare con molta più prudenza l’andamento del nostro debito pubblico.   L’aumento della spesa per interessi “spiazzerà” inevitabilmente tante altre spese pubbliche più importanti e renderà più difficili i tanti arbitraggi da fare tra esigenze diverse.   Oggi molti pensano che la possibile revisione delle regole di bilancio europee apra la possibilità di spendere senza limiti.   Non è così.   Tutte le proposte per delle nuove regole fatte finora da economisti italiani e stranieri – e ce ne sono tante – mantengono tutte dei vincoli sull’andamento del rapporto tra debito pubblico e PIL.

E il problema di regole di bilancio europee troppo rigide è un problema che tocca solo pochi paesi.   Secondo le recenti previsioni della Commissione europea a fine del 2023 ben 13 paesi dell’Unione europea avranno un rapporto tra debito pubblico e PIL inferiore al 60 per cento con altri sette che saranno appena al di sopra.   Per questi ultimi sette paesi l’obbligo di una riduzione annua di un ventesimo dello scarto tra il loro livello attuale ed il 60 per cento non pone alcun problema.

La Grecia ha il più alto rapporto tra debito pubblico e PIL, ma non rappresenta un gran rischio dal punto di vista della sostenibilità del suo debito pubblico poiché il grosso del suo debito pubblico non è sul mercato ma è nei confronti del MES e direttamente nei confronti dei paesi dell’eurozona.   Il Belgio non si batterà molto per delle regole più lasche, perché nel paese esiste un largo consenso per la necessità di ridurre il rapporto debito pubblico che già aveva portato la delegazione belga a rallegrarsi dell’introduzione del Patto di Stabilità e dei criteri di Maastricht.   L’applicazione rigida delle vecchie regole costituirebbe un serio problema di politica economica solo per Italia, Francia, Portogallo, Spagna e, forse, Cipro.

A volte piccoli cambiamenti di certi valori che li portano a superare cifre tonde o altre soglie psicologiche portano a guardarsi allo specchio e a chiedersi dove stiamo andando.   In questo caso è particolarmente importante farlo.

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Archiviato in:Economia

Info Fabio Colasanti

Fabio Colasanti è un economista che ha lavorato per molti anni alla Commissione europea. Si è laureato in economia a Roma con il professore Federico Caffè e con Ezio Tarantelli. Ha lavorato per una ventina d'anni nella direzione generale per gli affari economici e finanziari dove ha lavorato sul Sistema monetario europeo, è stato coordinatore delle previsioni economiche della Commissione europea e poi responsabile della redazione dei documenti di analisi economica (rapporti annuali e raccomandazioni di politica economica).

Nel 1996 è diventato direttore alla direzione generale per il bilancio. Successivamente ha diretto la direzione generale per le imprese e poi quella responsabile per le telecomunicazioni, lo sviluppo delle politiche digitali ed il finanziamento della ricerca in questi campi.

Nel 2010 ha fatto parte di un gruppo internazionale incaricato di formulare raccomandazioni per il futuro dell'ICANN e per il suo ruolo nell'assegnazione degli indirizzi internet e dei nomi di dominio.

Dall'aprile 2010 a marzo 2016 è stato presidente dello International Institute of Communications (Londra, UK). Dal 2014 al 2020 è stato membro del Consiglio di amministrazione di Rai Way (società quotata in borsa). Dal 2011 è uno degli organizzatori del seminario di Villa Vigoni sull'euro.

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Interazioni del lettore

Commenti

  1. Giovanni Ornati dice

    20 Gennaio 2022 alle 15:19

    Caro FABIO ammetto che di politica economica ne capisco poco e nulla , allora ti faccio una domanda visto che se dovessi fare leggere il tuo commento a ” compagni ” e amici si farebbero la stessa domanda, ALLORA che succede o succederà per l’italia in senso economico, si vedranno miglioramenti o no , visto poi il peggioramento economico dovuto alla situazione straordinaria COVID non aiuta di sicuro , chiedo per italia perché se parlo con le persone questo mi chiedono , poi capisco benissimo che siamo legati all’Europa e a tutti i suoi movimenti di mercato debiti banche PIL spread ecc ecc . In sostanza DRAGHI e il suo governo , dove il PD è molto presente sostengono, senza illudere o promesse vane , che c’è e ci sarà una ripresa graduale economica a leggere il tuo commento a me sembra molto difficile, o sbaglio. Ciao

    Rispondi
  2. giorgio mamberto dice

    20 Gennaio 2022 alle 21:30

    Caro Fabio,
    complimenti per la sintesi e la chiarezza.. Molto dipenderà da quanto dura l’attuale livello d’inflazione.. Se ho ben capito la BCE prevede che si ridurrà progressivamente quest’anno e l’anno prossimo. Se è cosi’ vivremo felici e contenti.. Se cosi’ non sarà, , qualche problema ce l’avremo.
    Giorgio

    Rispondi
  3. Roberto Antonelli dice

    23 Gennaio 2022 alle 17:00

    Grazie, Dottor Colasanti, per la chiarezza e la semplicità : anche un profano come il sottoscritto ha potuto seguire le vicende passate per capire un po’ meglio il presente. Mi chiedo perché non abbia menzionato il ripresentarsi dell’ inflazione per gli effetti che avrà su i già tanti punti di PIL destinati agli interessi sul debito, e quanto vi contribuisca la tassa sull’ energia imposta dallla Commissione Europea tramite lo European Trading System. LeggerLa è sempre un piacere.
    Dr.Ing. Roberto Antonelli
    Rue de l’Ermitage 46 (B.17)
    1050 Brussels, Belgium
    Tel. +32 [0]2 648 35 75
    Cell +32 [0]473 91 84 45

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