Due fantasmi sembrano aggirarsi nel paese. Il fantasma del fascismo e il fantasma dell’antipolitica. Hanno a che fare tutti e due con l’argomento di questo libro.
Nell’autunno del 2022 la destra ha vinto le elezioni. Il più votato è stato un partito di destra, che occupa la destra dell’emiciclo parlamentare e aderisce a un gruppo europeo di destra. Ma, come già accadde nel 1994, quando i missini di Gianfranco Fini entrarono nel governo, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni – nata tre decenni dopo Salò – ha sollevato un’ondata di passioni d’antan. La sinistra è scesa in piazza con le bandiere dell’Associazione Nazionale Partigiani, ha denunciato il pericolo dell’eterno ritorno, ha mobilitato gli intellettuali engagés. Il fatto è che in Italia, nel discorso pubblico, nel senso comune, destra rimane una parola minacciosa, equivoca, quanto meno inelegante. Non evoca il conservatorismo, i Tories, i gollisti. Evoca il fascismo. Ancora oggi, a settant’anni dalla fine della dittatura, destra e fascismo sembrano, in Italia, un binomio inscindibile.
Il secondo fantasma è l’antipolitica, il populismo, la cronica estraneità – e non di rado ostilità – di una parte consistente dell’opinione pubblica nei confronti della rappresentanza democratica, del gioco parlamentare, dei partiti. Un’opinione pubblica che appare volubile, irregolare, difficilmente prevedibile. E che, forse in grazia di questa esistenziale estemporaneità, sul finire del Novecento ha portato al governo partiti e movimenti eccentrici rispetto alle forze politiche che avevano governato il paese nei precedenti cinquant’anni, ovvero i cattolici della Dc e le sinistre socialiste e comuniste. É stata un’Italia definita come antipolitica e populista a dare le chiavi del Palazzo, di volta in volta, a Berlusconi, Bossi, Fini, Salvini, Meloni. Cioè, per la prima volta nella storia repubblicana, a formazioni di destra. Antipolitica e populismo del resto vengono usualmente associati alla destra.
Vengono ripercorrere questi intrecci, che hanno segnato non poco l’intera storia della Repubblica e che forse spiegano perché in Italia i partiti di destra siano stati a lungo figli di un dio minore, perché la destra continui ad essere ancora oggi poco meno di un tabù linguistico, perchè non abbia mai messo radici nel paese un partito conservatore. Che forse spiegano, in ultima analisi, se e quanto sia giustificato lo stigma che spesso accomuna destra, antipolitica e populismo.
Chi scrive, per dirla chiaramente, ha molti dubbi in proposito. Dubita cioè che la lunga delegittimazione delle destre nella prima Repubblica abbia giovato al paese, proteggendolo dai temuti rigurgiti fascisti, o non sia stata piuttosto un grave limite alla partecipazione democratica, a un rapporto positivo tra elettori ed eletti. E dubita, in secondo luogo, che quell’Italia antipolitica e populista – l’Italia che da Guglielmo Giannini arriva a Beppe Grillo – possa essere vista semplicemente come il buco nero della nostra democrazia rappresentativa, un fenomeno destabilizzante di indifferenza alla sfera pubblica e di marginalità culturale. O non, piuttosto, come una sorta di campanello d’allarme, una sentinella talvolta maleducata, certo, ma sempre pronta a punire le défaillance delle classi dirigenti, dei governi, delle istituzioni. Una spada di Damocle che impedisce alla politica di chiudersi nelle proprie stanze.
Di questo si parlerà. E, inevitabilmente, se ne parlerà con un occhio alla cronaca. Va da sé infatti che anche la leadership di Giorgia Meloni dovrà porsi il problema. Che fare di fronte alla perdurante accusa di fascismo che le viene rivolta? E come interpretare, dai banchi del governo, quell’elettorato che tante volte ha espresso sentimenti ostili nei confronti della politica?
Il fatto è che la storia delle destre in età repubblicana, dal partito dei reduci di Salò alle coalizioni di Silvio Berlusconi e infine ai giorni nostri, si intreccia con una quantità di equivoci ideologici e di veri e propri inganni politici. Gli uni e gli altri ben noti, peraltro, sebbene spesso messi tra parentesi.
Gli equivoci vengono soprattutto da sinistra. Avendo avuto parte principale nella Resistenza, la sinistra ha sempre ritenuto di avere la rappresentanza dell’Italia antifascista. Quasi un monopolio. Ha divulgato l’equivalenza tra antifascismo e sinistra. Ha inteso parlare a nome di un paese antifascista e perciò di sinistra. Ma evidentemente le cose non sono così semplici. Non è detto che un paese antifascista sia di sinistra. L’Italia, dopo avere inventato il fascismo, l’ha poi solennemente ripudiato nella sua Costituzione, ma non per questo è mai stata un paese di sinistra.
Per una somma di motivi, qui la sinistra non ha mai vinto le elezioni. Anzi, con l’eccezione del Fronte Popolare nel 1948, non si è mai presentata alle elezioni come sinistra, sebbene questo non significhi che non sia mai andata al governo. C’è andata, e lungamente, ma all’interno di coalizioni dominate dalla Democrazia cristiana o comunque formate da partiti di differente cultura politica, liberal-democratici, ambientalisti, populisti. Coalizioni che infatti venivano qualificate di centrosinistra e che quasi sempre furono guidate da presidenti del Consiglio non di sinistra.
Nei paesi europei, una volta o l’altra la sinistra è diventata maggioritaria, conquistando perciò il diritto di governare. In Italia, mai. Una singolarità che si spiega con i limiti storici delle nostre sinistre – divisioni interne, alleanza con il comunismo sovietico, debolezza della socialdemocrazia – ma che ha fatto ritenere a quelle stesse sinistre che, malgrado ogni loro sforzo, l’Italia rischi sempre di diventare un paese di destra. Che, per qualche strano vizio, per qualche mal riuscito miscuglio di storia e di antropologia, il suo cuore e i suoi neuroni vadano fatalmente verso una destra infiltrata da retaggi fascisti. Anche la destra di Meloni è accusata dalle sinistre di essere illegittima non per quel che intende fare oggi a Palazzo Chigi, ma per le sue storiche origini fasciste e per il suo presunto rifiuto dell’antifascismo.
Naturalmente, quella di un paese antifascista di sinistra contrapposto a un paese di destra fascista è un’immagine di maniera, uno stereotipo ideologico che sembra smentito dalle vicende, molto meno manichee, della società e della politica degli ultimi ottant’anni. Se non fosse l’ennesimo slogan, si potrebbe parlare piuttosto di un’Italia di ragionevole moderazione, della presenza nella storia della Repubblica di una vasta opinione pubblica tradizionalista, conservatrice, legata alla morale corrente, cauta di fronte alle novità. Un paese che esprimeva a metà Novecento i valori delle campagne, la lenta quotidianità di provincia, le prescrizioni dei confessori, il familismo autoritario. E che in parte è sembrato sopravvivere, con quel suo nocciolo di studiata prudenza, anche quando venne investito dall’americanizzazione, anche quando visse – con moderato scandalo dei padri – la frattura esistenziale del Sessantotto e perfino quando ha dovuto imbattersi nelle dure sfide della globalizzazione. Una società troppo dipendente dallo Stato, infiltrata dai nepotismi, disabituata alla meritocrazia per non essere vecchia, troppo povera di opportunità per valorizzare i suoi giovani.
Altri stereotipi? Forse sì. Dopotutto, questo é stato anche il paese del salto vertiginoso dall’autarchia fascista al mercato internazionale, dalla Chiesa di Pio XII alla Dolce vita di Fellini, dal devoto Gino Bartali all’americano Mike Bongiorno, il paese del “miracolo economico”, di una aggressiva Terza Italia. E delle coraggiose migrazioni transoceaniche, dei lunghi viaggi dal profondo Sud a Torino, dei milioni di uomini e donne che, pur di abbandonare i villaggi senza futuro dei padri, finivano in città repulsive, lavoravano in fabbriche dickensiane, accettavano salari di fame. Gli animal spirits esistono anche qui, sarebbe ingeneroso non vederli. Ed esiste, se è per questo, una tradizione rivoluzionaria, sovversiva, antagonista che spesso si è affacciata nelle pagine della nostra storia attraverso le gesta dei volontari garibaldini e poi nelle lotte per i demani, nell’interventismo violento del 1915, nel fascismo di San Sepolcro, nella guerra civile del 1943-1945, nelle vendette politiche dopo la Liberazione, nello spreco di sangue degli “anni di piombo”.
Anche quelle passioni estreme, tuttavia, sembrarono sempre imbattersi in una maggioranza del paese che non prendeva posizione, che ne restava fuori. Una maggioranza che nel secondo Ottocento si era adeguata, talvolta con molti dubbi, alla “conquista piemontese” e poi durante il fascismo aveva finito per accettare le privazioni della libertà imposte da un regime autoritario e poi ancora nei decenni repubblicani non aveva lesinato consensi al partito dai piedi di piombo, a una Democrazia cristiana che si barcamenava tra conservazione e innovazione, ma in sostanza accudiva lo status quo e ne tutelava la moltitudine dei grandi e piccoli interessi.
Non sono sicuro che in Italia, come scriveva anni fa Ernesto Galli della Loggia sulle orme di Leo Longanesi, non vi sarebbero conservatori perché non vi sarebbe nulla da conservare. Spesso, il conservatorismo sembra prescindere da calcoli del genere, segnalando piuttosto la forza delle tradizioni, cioè valori comunitari e antiutilitaristici. E poi – non per tutti, ma per molti – anche in questo paese non sono state poche le cose da tenersi strette, acquisizioni materiali, status sociale, innovazioni civili, nicchie corporative. Dopotutto c’era esperienza, saggezza, forse cinismo nel tenersi lontani dalle avventure. Quando negli anni Settanta i terroristi seminarono di morti le strade sotto casa, gli italiani restarono estranei a quei fuochi di guerra civile, in pochi li sfidarono a mani nude come l’operaio Guido Rossa, più spesso tacquero. Eppure isolarono gli assassini. Furono con lo Stato, sebbene ne conoscessero bene i molti limiti. Alla rivoluzione dei “rossi” e dei “neri” preferirono le riforme varate dai governi del tempo, pensioni più generose, imposte più eque, sanità per tutti, il divorzio. Aveva ragione Alcide De Gasperi quando, sul finire del 1943, in un panorama di macerie fumanti, scrisse che qui “c’è tanto da conservare, almeno quanto c’è da distruggere”.
Non so fino a che punto sia possibile racchiudere tutto ciò in una definizione. Ma forse è troppo facile stigmatizzare come segno di inconsapevolezza o di immaturità politica o, peggio, di indifferenza quel conservatorismo muto che spesso sembra un muro di gomma. Troppo facile rivangare l’Italia degli “Apoti”, di “coloro che non la bevono”, come diceva Giuseppe Prezzolini, degli attendisti, della zona grigia, di quanti preferiscono non schierarsi. Troppo facile chiamare in causa la mancanza di senso civico. Forse quell’indifferentismo era anche il segno di una popolazione che difendeva gli interessi legittimi della dimensione privata, che rifiutava l’eccesso di pedagogia politica, che soffriva l’inadeguatezza invasiva della sfera pubblica. Un’Italia che esprimeva tensioni individualistiche e libertarie fino a spingersi sul terreno scivoloso della diffidenza verso le regole e le procedure.
Certo è che un fenomeno salta agli occhi, se si ripercorre la storia repubblicana, e sembra attraversarla tutta intera, sia pure in forme volta a volta diverse. L’inganno politico. Un rapporto ingannevole tra questo paese – tra un paese di destra, o non di sinistra – e la dimensione politica della Repubblica. Fu nelle fasi germinali della democrazia italiana, nel dopoguerra, e poi nel corso della prima Repubblica che le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali. Una condizione di subalternità che ebbe a che fare con le loro scelte spesso inadeguate e, non di meno, con un quadro politico dominato da partiti – la Democrazia cristiana, le sinistre – che li sovrastarono e ne prosciugarono l’elettorato potenziale. Larga parte dell’opinione pubblica, di conseguenza, intrattenne con la democrazia rappresentativa un rapporto tortuoso, insincero.
Fu un inganno la facilità con la quale vennero tagliate di netto le radici con i decenni prefascisti, condannando all’irrilevanza una cultura politica liberale che pure aveva fatto l’Italia e l’aveva avviata alla modernizzazione e che ora fu accusata di aver aperto le porte alla dittatura. Fu un inganno l’assunzione dell’antifascismo a religione civile, dimenticando il consenso raccolto dal regime e rinunciando, al tempo stesso, a epurare la società fascista, che perciò potè sopravvivere pressoché intatta nell’Italia antifascista. E fu ingannevole, dall’altra parte, il profilo assunto da una destra neofascista che, per tenersi stretto un utile ghetto identitario, esibiva la propria fedeltà incrollabile al Ventennio e a Salò e in realtà, come ha scritto Alessandro Campi, si muoveva “nello spazio tipico, in ogni paese europeo, di una destra ideologicamente moderata e anticomunista, di estrazione impiegatizia e urbana, moderatamente protestataria, insofferente alla politica ufficiale e di umori qualunquisti”. E del resto, se non un inganno, fu una sorta di rimozione anche quel trapasso dalla monarchia alla Repubblica al quale si era voluto attribuire un forte valore palingenetico e che però lasciava senza patria undici milioni di italiani, sottovalutando la profonda frattura culturale fra un Nord repubblicano e un Sud monarchico e le sue future, decisive implicazioni politiche.
Ma poi, una volta depennati liberali, monarchici e fascisti dalla nuova Italia, quale approdo offrì la democrazia al paese di destra? Quell’Italia finì per confluire in culture politiche che le erano in parte estranee. Si rifugiò per decenni nel ventre del partito dei cattolici. Il suo consenso fu una sorta di “seconda scelta”, fu quel votare “turandosi il naso” di cui disse con parole brutali Indro Montanelli. E poichè la Dc nel frattempo stringeva accordi con le sinistre, i suffragi del paese di destra finirono per essere portati a sinistra. E fu un altro inganno. Gli elettori venivano manipolati dai partiti che avevano votato e i partiti, a loro volta, credevano – a torto – di aver messo radici nei loro cuori. Si trattava di gravi distorsioni.
La rappresentanza poggiava su basi fragili, la fidelizzazione alla politica era precaria. E diventò tanto più precaria nel tardo Novecento, anni di strategie economiche deboli e di inefficienza delle istituzioni, quando furono molte le colpe – e la miopia – dei partiti. Come ha scritto Piero Craveri, le classi dirigenti del paese apparivano viziate da “una profonda insufficienza culturale e politica”.
Il sistema parlamentare, nel frattempo, si era chiuso a doppia mandata, la Dc controllava l’esecutivo, socialisti e partiti laici minori garantivano la maggioranza, i comunisti erano partecipi del potere pubblico attraverso le pratiche consociative. Per alcuni decenni, al di là delle apparenze, delle molte crisi di governo, dei conflitti interni ai partiti, dei toni aspri tra maggioranza e opposizione, il paese fu retto da un “arco costituzionale” che non prevedeva intrusioni, nè diversivi. La “partitocrazia” era diventata un regime, dicevano i radicali.
Nel 1982, volendo legittimare l’opposizione, Marco Pannella era intervenuto al congresso del Msi, accolto dall’ovazione dell’assemblea. Nelle dinamiche parlamentari mancava ogni ipotesi alternativa. E quei suffragi che erano stati espressi come “seconda scelta” – che non avevano avuto dove altro andare – covavano attitudini crescenti di sfiducia, un atteggiamento di sorda critica nei confronti del ceto di governo, dei partiti, del Parlamento.
Tornava in superficie il fiume carsico di un’antipolitica che era la somma di decenni di equivoci e di inganni e che esplose fragorosamente con il collasso dei partiti della prima Repubblica. Nel 1994 l’elettorato seguì in massa le sirene di quanti promettevano una guerra di liberazione dai vizi della politica. I motivi del malessere popolare, del resto, erano molti, il paese si stava incamminando sulla strada di quel che fu chiamato il declino. Fecero la loro comparsa figure politiche che si rivolgevano direttamente alla popolazione, scavalcando le forme della rappresentanza, i partiti, il Parlamento. Era la personalizzazione della politica, l’avvento dei partiti personali, l’irruzione di leadership carismatiche. “La democrazia del leader”, come l’ha definita il suo principale studioso, Mauro Calise. E la destra fu in grado di cogliere il vento favorevole, potendosi presentare come storicamente estranea alla “partitocrazia”, e venne infatti innervata dalle tensioni che si respiravano in quell’Italia, la rivolta contro i professionisti della politica, il forte scontento delle regioni settentrionali, la richiesta di assistenza del Mezzogiorno. Fu perciò, in buona misura, una destra populista, territoriale e sociale.
Il paese rispose con generosità, la coalizione guidata da Silvio Berlusconi inanellò vittorie. Ma si trattava di un elettorato non ideologico, privo di forti legami identitari, disponibile all’innovazione politica e altrettanto pronto a cambiare bandiera di fronte alle promesse non mantenute. E poichè – altri inganni – i governi di centrodestra spesso non mantennero le promesse, gli astri della seconda Repubblica vissero tra grandi exploit e rapidi declini. Rischiarono di essere meteore, i loro partiti si gonfiavano di milioni di voti e li perdevano nel giro di pochi anni. Una volatilità elettorale che spesso è stata interpretata come sintomo di scarsa consapevolezza, ma che sembrava piuttosto segnalare i problemi reali del paese e si mostrava capace di giudicare pragmaticamente i propri eletti. Crocifiggerla allo stigma dell’antipolitica è forse una semplificazione. Fu questa anche la traiettoria del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Un’altra stagione fulminante, che si sarebbe chiusa con la vittoria, altrettanto rapida, di Giorgia Meloni. E questa volta, dichiaratamente, era destra.
Sono questi i nodi che si cercherà di dipanare, problemi all’incrocio fra società e politica e, al tempo stesso, all’incrocio fra presente e passato. Ripercorrerli, sia pure in breve, lungo le stagioni della Repubblica, renderà forse meno magmatica la cronaca quotidiana e meno episodica la conquista del governo da parte di Giorgia Meloni. La storia delle destre italiane sembra infatti svelare una sorta di paese profondo, un filo rosso che si srotola senza soluzioni di continuità, quasi un catalogo di “caratteri originari”. Il racconto prenderà le mosse dalle stanchezze e dalle passioni del dopoguerra, quando chi legge queste pagine probabilmente non era ancora nato, ma sarà facile, spero, cogliere le parentele tra il passato e il presente. Due dimensioni che talvolta, in Italia, si specchiano come fratelli gemelli.
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