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La burocrazia degli affetti

Consentire di “incontrare congiunti”, invece di limitarsi a regolamentare le modalità degli spostamenti, non limita le occasioni di contagio, ma è espressione di una cultura illiberale in cui l’individuo non è un titolare di diritti ma un suddito.

30 Aprile 2020 da Salvatore Di Martino Lascia un commento

Senza voler apparire troppo polemici con chi in questo momento delicato ha il compito di fare scelte complesse, appare evidente che l’idea di dover “comprovare”, ovvero, secondo la definizione del vocabolario Treccani, addurre “argomenti che si aggiungono ad altri o di fatti che confermino quanto già asserito per vero” per incontrare i “congiunti”, ovvero ai parenti e cioè “coloro che discendono da uno steso stipite” come precisa l’art. 74 cc e la conseguente affannosa rincorsa di ministri e uffici di gabinetto per spiegare che tra i “congiunti” sono ricompresi “gli affetti stabili”, prima che un surreale florilegio di burocrazia leguleia, è un chiaro segno di quanto sia necessaria una ridefinizione del ruolo dello Stato nella vita dei cittadini e relazioni familiari in particolare.

Tanta macchinosità per individuare quale tipologia di spostamenti siano consentiti e quali no, infatti, non è solo frutto di una difficoltà linguistica o tecnica, ma la conseguenza di un approccio invasivo dello Stato nella vita delle persone che poco o nulla risponde ai canoni della tradizione liberale secondo cui “la famiglia è un’isola che il mare del diritto può solo lambire”.

Arrivare al punto di ritenere consentito “incontrare congiunti”, invece di limitarsi semplicemente a regolamentare le modalità degli spostamenti necessari alla vita familiare, non serve a limitare o escludere le occasioni di contagio, ma è espressione di una cultura illiberale in cui l’individuo non è titolare di diritti propri e si pone in posizione di parità con lo stato ma ne è suddito e gode di mere concessioni revocabili in qualunque momento.

La libertà e la dignità umana vanno salvaguardati anche quando si tratta di tutelare la salute pubblica: allo stato spetta di decidere se e come erogare i propri servizi ai cittadini, se e quali misure di protezione individuale e generali imporre allo scopo di tutelare la salute pubblica, limitare gli spostamenti avendo riguardo a criteri oggettivi (all’interno del comune o regione di residenza), o soggettivi purché direttamente connessi alla tutela della salute pubblica (quarantena per positività al virus), ma non si può entrare nel merito delle ragioni degli spostamenti senza ledere la dignità e la libertà delle persone, com’è pure è stato paventato salvo clamorose marce indietro, quando s’è discusso della possibilità di limitare gli spostamenti dei genitori separati per il trasferimento dei figli o, come adesso, per stabilire quali relazioni familiari ed affettive consentire e quali no.

Altrimenti non solo saremo sempre difronte alla necessità di rincorrere precisazioni e specificazioni com’è avvenuto fino ad ora in modo alquanto imbarazzante, ma soprattutto avremo mutato la natura stessa della nostra democrazia: saremo cioè passati da una democrazia di tipo liberale in cui la libertà e la dignità di ogni singola persona sono la precondizione necessaria di uno stato democratico, ad uno stato in cui la maggioranza politica del momento, oggi pronta precisare che i congiunti sono anche le coppie di fatto ma che domani potrebbero essere solo quelle sposate con rito religioso cattolico, decide di volta in volta quali libertà concedere e quali no, a prescindere da eventuali condizioni di necessità o emergenza.

Un cambio che potrebbe ben estendersi oltre le relazioni familiari ed affettive e riguardare le libertà economiche con conseguenze facilmente immaginabili: chi investirebbe, infatti, in un paese in cui lo stato decide chi e come ed in quali settori economici si può investire e quali no, e poi cambia le regole ad ogni elezione?

Se la Costituzione ha sentito il bisogno, sin dall’art. 2, di impegnare la Repubblica, in tutte le sue articolazioni, nel riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, il motivo è evidente e varrebbe la pena tenerlo a mente ogni volta che si discute di persone e corpi sociali.

Come affermò Aldo Moro illustrando i due emendamenti identici – a firma di Fanfani ed Amendola a riprova della comune visione su questi temi tra forze che si contrapponeva su altro – da cui è nato il citato art. 2: “Facendo riferimento all’uomo come titolare di un diritto che trova una sua espressione nella formazione sociale, noi possiamo chiarire nettamente il carattere umanistico che essenzialmente spetta alle formazioni sociali che noi vogliamo vedere garantite in questo articolo della Costituzione. E da un altro punto di vista, il parlare in questo caso di diritti dell’uomo, sia come singolo, e sia nelle formazioni sociali, mette in chiaro che la tutela accordata a queste formazioni è niente altro che una ulteriore esplicazione, uno svolgimento dei diritti di autonomia, di dignità e di libertà che sono stati riconosciuti e garantiti in questo articolo costituzionale all’uomo come tale. Si mette in rilievo cioè la fonte della dignità, dell’autonomia e della libertà di queste formazioni sociali, le quali sono espressioni della libertà umana, espressione dei diritti essenziali dell’uomo, e come tali debbono essere valutate e riconosciute. In questo modo noi poniamo un coerente svolgimento democratico; poiché lo Stato assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell’uomo guardato nella molteplicità delle sue espressioni”.

Si tratta quindi semplicemente di indicare – evidentemente alla luce dei valori costituzionali e delle misure di protezione rese necessarie dall’emergenza sanitaria – le misure di protezione individuali e collettive con le quali consentire l’esercizio delle varie filiere di interessi della persona (relazioni familiari ed affettive, politiche, religiose, professionali, culturali…) senza mai escluderle del tutto.

Evitando così, da un lato, atteggiamenti paternalistici francamente fuori luogo e palesi aberrazioni come nel caso dell’attività religiosa che, ad esempio, secondo quanto previsto dal DPCM del 26 aprile, sono sospese in ogni luogo, pubblico o privato, se svolte in forma di manifestazione organizzata mentre si lasciano aperti i luoghi di culto quasi che il contagio dipenda dalla presenza del sacerdote sull’altare.

Oppure riguardo ai funerali religiosi, ammessi fino a 15 partecipanti (e perché non 16 o 14) senza alcun riferimento alle dimensioni del luogo, mentre continuano ad essere vietati i matrimoni (o i battesimi), a prescindere dal numero di presenti (e quindi anche del solo celebrante e dei nubendi), quasi che, ancora una volta, il contagio dipenda dalla natura del sacramento celebrato.

Ciò che rende ben più che condivisibili le censure della Conferenza Episcopale Italiana e delle altre che domani volessero adire un TAR a difesa della propria libertà e di quella dei propri fedeli.

C’è dunque da augurarsi che tanto il governo quanto tutte le forze politiche facciano tesoro della lezione dei costituenti e prendano finalmente atto che le relazioni familiari tendono ad assumere forme e caratteristiche le più varie e non ha alcun senso discriminare a seconda di caratteristiche esteriori quali la natura del vincolo o la convivenza: la disciplina delle relazioni familiari ed affettive – che sono quanto di più intimo e soggettivo possa esserci – deve essere la più neutrale e meno invasiva possibile ed avere come unico fine la salvaguardia della dignità di ogni singola persona e non terreno di incursioni burocratiche.

Ancor più in tempo di pandemia.

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