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Il politicamente corretto non è una moda linguistica ma un programma politico di stampo radicale la cui caratteristica fondamentale è l'ostilità e il rigetto di gran parte della cultura occidentale così come si è andata costruendo nel corso di secoli di storia.

Il politicamente corretto e il libero pensiero

Il politicamente corretto non è una moda linguistica ma un programma politico di stampo radicale la cui caratteristica fondamentale è l'ostilità e il rigetto di gran parte della cultura occidentale così come si è andata costruendo nel corso di secoli di storia.

10 Gennaio 2022 da Valentino Baldacci Lascia un commento

Luca Ricolfi ha iniziato la sua collaborazione con Repubblica il 31 ottobre scorso con un limpido articolo dedicato al politicamente corretto e alle sue degenerazioni. Insieme alla moglie Paola Mastrocola ha ripreso e sviluppato quanto aveva scritto sul quotidiano in un volumetto dal titolo ambizioso: Manifesto del libero pensiero (La nave di Teseo, Milano 2021). Vedremo in dettaglio quali sono le sue (le loro) argomentazioni, ma prima di tutto è necessario premettere che il politicamente corretto – che ha ormai invaso gran parte degli spazi della comunicazione sociale e politica – non è una semplice moda linguistica di cui si potrebbe anche sorridere. È piuttosto un programma politico di stampo radicale la cui caratteristica fondamentale è l’ostilità e il rigetto di gran parte della cultura occidentale così come si è andata costruendo nel corso di secoli di storia.
Come rileva Ricolfi, è nell’ultimo ventennio del XX secolo che la sinistra americana centra la sua attenzione sulla riforma del linguaggio, una posizione, come rileva Ricolfi, idealistica e profondamente antimarxista. Per un certo periodo prevalse la tendenza a rifiutare l’uso di alcune parole considerate offensive o discriminatorie nei confronti di alcuni gruppi sociali e a sostituirle con altre più neutre. A partire dagli inizi del XXI secolo la riforma del linguaggio si è radicalizzata, assumendo forme decisamente ridicole, anche se non sono percepite
come tali in alcuni ambiti sociali. Uno delle più diffuse è quella che vieta di usare il genere maschile se ci si riferisce a gruppi misti: non si può più usare l’espressione “cari colleghi” ma si devono ripetere sistematicamente i due generi: “care colleghe e cari colleghi”; oppure, in una corsa senza limiti verso il ridicolo, usare come desinenza finale l’asterisco oppure la cosiddetta schwa.
Fin qui sembrerebbe di restare nel semplice campo linguistico. Ma ben presto la natura fortemente politica di questa cultura si rivela con il diffondersi della cosiddetta “cancel culture”, Non solo la storia politica ma anche l’arte e la letteratura del presente, ma anche del passato, vengono giudicate in base ai criteri etici oggi vigenti: la distruzione di opere d’arte (in particolare le statue di personaggi giudicati negativamente in base a tali criteri) è uno degli aspetti che maggiormente caratterizza questo indirizzo.
Ma non basta: il passo successivo è la discriminazione nei confronti di chi non si adegua alle regole del politicamente corretto: soprattutto in certi ambiti professionali il rifiuto di allinearsi a tali regole comporta l’ostracismo, l’emarginazione, il licenziamento. L’ulteriore passaggio implica che ciò che conta in una persona non sono le sue idee o la sua personalità ma l’appartenenza a un gruppo sociale che sia considerato oppresso oppure oppressore; quindi conta più se sei nero o bianco rispetto alle tue competenze professionali. L’ideale dell’uguaglianza è sostituito dalla appartenenza etnica o di genere, ripercorrendo al contrario la strada che aveva portato a superare le discriminazioni razziali con l’affermazione di nuove forme di razzismo.

(“Pagine Ebraiche 24” Articolo pubblicato in Idee il ‍‍06/01/2022)

 

 

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