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Solo Riformisti

Uno spazio aperto al confronto, civile e concreto, e un’occasione di riflessione. Per restare ancorati alla realtà, senza rinunciare agli ideali, per rifiutare le posizioni ideologiche, per riaffermare i valori democratici.

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Il male, c’era – Elegia per Marghera

L'elegia l'avevo scritta come prima esplorazione del luogo in cui volevo ambientare buona parte del romanzo "Le vite potenziali" a cui allora stavo lavorando. L'intenzione era quella di vedere se le contraddizioni di Marghera avrebbero provocato sulla pagina le stesse scintille cui mi sembrava dessero vita nella realtà.

5 Dicembre 2020 da Francesco Targhetta Lascia un commento

La linea della più sconvolgente accoppiata in stridore che esiste al mondo, Venezia legata insieme a Mestre-Marghera (qual è il vivente, qual è il cadavere?), di colpo sfida a una sutura di recupero attraverso l’oscenità del reale e del presente; sfida […] a saltare più in là, verso il non ancora realizzato, verso un mai-visto in cui persino il male venga bloccato, svuotato del suo potere e riabilitato come segno, traccia, forma.

(A. Zanzotto, Venezia, forse)

 

Dopo l’ingresso della Fincantieri,

dove sbocca la statale su ruderi

di industrie siderurgiche

ridotte a squarci e filami di amianto,

c’è, tra le corsie, al centro, una vasta

depressione del manto, che evitano,

sfiorandoti, i Transit e i tir. Le piogge

e i freddi l’avranno scavata e ora è tutta

ricolma di acqua, stagno di unto iridato

a riflettere le gru e gli stralli, il cielo

dato in affitto verso i depositi

del Petrolchimico e i grigi sguanci

della torre Hammon (l’ex refrigeratore

della Montecatini):

a vederla, Marghera, capovolta,

ancor meno appartiene a questa terra.

Non ha conferme ma piace ripeterlo

l’etimo fantastico del suo nome

mar, ghe gera – il mare, c’era

tra darsene dove è stivato l’Adriatico

in vasche per le acque di raffreddamento,

mentre dietro ai cancelli svettano ai venti

le navi da crociera pronte alla fuga

sulle onde rimaste nei mari degli altri.

Sotto il sole dopo gli scrosci rancidi

gli operai cingalesi che sciamano

finito il turno dalle otto alle sedici

li incontra oggi soltanto, Fabio,

perché è uscito prima del tempo

dalla Acrobyte (consulenza informatica),

dov’è sistemista da ottobre:

mentre a piedi ci spostiamo in città

mi parla del posto che aveva perso

in un’azienda di calze a Vigonza

per un poco la cassintegrazione,

   a dicembre i registri IVA dal giudice

e me lo dice incrociando manovali kosovari

che rotti vediamo negli occhi,

chiusi a noi, e duri, come i cartelli

vietato fare foto sui muri della Fincantieri,

coi cocci aguzzi di bottiglia sopra,

come usava a preservare orti e ville –

mentre il segreto che qui si protegge

è fatto di frese e putrelle.

Ormai alle spalle ci lasciamo il Vega,

il Parco Scientifico e Tecnologico

costruito per rilanciare

Porto Marghera 2.0: è lì che ha sede

la Acrobyte, tra edifici in vetro e loft riattati,

banche, start-up e studi di architetti,

mensa col ping-pong e infilata di stabili

tutti fedeli al tema astronomico

(dal Lybra, dall’Antares, dall’Auriga

ci si affaccia in giacca e cravatta,

casual, magari, il venerdì),

mentre sgusciano le auto di chi investe

in e-commerce e nanotecnologie,

ma queste strade di nomi pesanti

via delle industrie, dell’elettrotecnica

tradiscono il retaggio di ferro e argon

restando colme di un silenzio ambiguo,

tanto che disinveste la regione:

sui marciapiedi dissestati dove nessuno

mai cammina, lungo le vecchie rotaie

ridotte a parcheggi, tra gli hangar scheletrici

e gli sterpi che ramificano sulle banchine

a discarica, gli unici rumori sono

le ruspe che abbattono i capannoni

archeologici, perché il nuovo lavoro

sa procedere sottovoce, sinfonia di tasti

e connessioni veloci, ma anche, certo,

perché sfitta è rimasta buona parte

degli uffici. Questo, si ha:

dismissione nell’immobile Pleiadi

con veduta sulle rimesse ex Breda,

matrioske anemiche di luoghi vuoti,

e l’unico esercizio in zona è un bar

che chiude alle cinque, perché poi

tutti fuggono a casa, protetti dagli infissi

e dagli allarmi, o a farsi un Cynar in paese

assieme agli amici del basket,

mentre qua un happy hour suonerebbe

come perfida ironia. Ci abbiamo

pranzato, io e Fabio, prima: All’incrocio,

si chiama, il bar,

con un semaforo verde all’ingresso,

ma non è all’incrocio di niente –

chiude, prima di una sbarra, una via.

*        *       *

È nel sangue di Marghera, d’altronde,

l’ossimoro, la contraddizione,

lei che nacque come città-giardino

nel 1917,

Pietro Emilio Emmer l’ingegnere

urbanista, padre a pochi mesi di distanza

di un figlio e di una città: il primo

diventerà regista delle domeniche d’agosto

italiane, la seconda il setting calloso

del resto della settimana,

tutto piallato in bianco e nero sempre.

“Un polo portuale e industriale deve

averlo anche Venezia”, e accanto, separato

da un viale come retta di olmi e aiuole,

nasce sopra campi malarici il paese,

il Quartiere Urbano, verde e spazioso

da progetto come i nuovi sobborghi

di Londra, ideale per dare dimora

alla futura classe operaia – e accanto

Cita, Vetrocoke, Azotati, Metallotecnica,

Feltrificio, Save, già nel ’24

le prime denunce per le acri esalazioni

dei gas, ma è solida la litania d’acciaio

di quelle ragioni sociali,

sicché sempre chi verifica sceglie

di lasciare che si lavori.

Ancora lo si ammira dall’alto dei satelliti,

lo schema reticolare di rotonde

e raggiere, con case dell’ente, I.A.C.P.,

ogni abitazione il suo orto vicino,

cinematografo nel ’34, la chiesa dei frati

sei anni dopo. Ma presto il piano precipita:

a Marghera si stabiliscono capetti e bottegai,

e fuori, sparsa, si sfibra la manodopera,

in campagne divise dai fossati

che disperdono la sua dura carica,

mentre nascono a cintura villaggi

dove al bando il regime spedisce

i poveri della laguna, assieme

a sfollati e dissidenti politici

(che splenda, Venezia, nei suoi ori soltanto):

se si passa, oggi, per ciò che rimane

di Rana, Brentelle e Ca’ Emiliani,

si sente nell’aria l’eredità

delle baracche costruite con cascami

di pannocchie e calcestruzzo alleggerito

dalle scorie degli impianti: sono via

delle erbe, adesso, del maggiolino, che danno,

all’angolo, su piazza dello spazio,

dove ti aspetti che sopra astronavi

planino in incognito le sere,

le case basse voltate a sghimbescio

verso il cielo di ciminiere.

È sulla terra di nessuno

tra le fabbriche e il centro abitato,

dove cenano alcuni camionisti

all’ombra delle loro bisarche –

via Galvani, dell’azoto, dell’atomo

    della pila, dell’elettricità

(spaccio, alla sera, puttane, eroina) –,

che ancora riemergono dietro garage,

sotto tetti di eternit e carriponte,

bunker e rifugi antiaerei dall’aspetto

di tombe etrusche o cisterne,

e sono, invece, i suoi mausolei,

le ferite della guerra a Marghera:

bombardata nel ’44 dagli alleati,

a blocchi, rinascerà, di condomìni

popolari, installati, come nel largo

del Mercato, al centro dei viali

a verzieri (Emmer, intanto, è fatto fuori:

accusa di concussione, infondata),

ed ecco che si erge la città brutalista

come Beograd, Bucarest o Mosca,

come bianche cittadine lettoni

col contatore Geiger in piazza,

e tra le vie di zinco si invischiano migranti

da ogni angolo del pianeta, profughi

dalmati, africani, asiatici, trasfertisti

all’Ilva dal sud, con il porto che sbarca

dai piroscafi lontane fisionomie,

che io e Fabio ora scrutiamo

nei vólti di figli e nipoti

penetrando piano in città:

tutti i quartieri sono periferie,

qua, nei parchi giochi dentro i rondeau

dove si affollano etnie a vertigine,

o nei bar cinesi sotto ai palazzi

coi pianerottoli aperti sui platani,

le baba sulle panchine, le giovani

slave di cui fantasticano gli anziani

ai tavoli in fòrmica – 1 su 5 ha

origini straniere, dei 30 mila residenti

a Marghera, tra gli under 20 quasi 1 su 3 –,

eppure senti vita vera nelle voci

in strada e sugli usci, nell’abbraccio

di caseggiati slovacchi davanti

al Cristo Lavoratore, nei visi appoggiati

a vetrine di assorte lavanderie a gettoni,

a osservare la sera sui pedoni

farsi notte,

dove scoda viale Beccaria.

Su questo varco finiva un tempo

l’autostrada, il benvenuto di Venezia

agli autisti: ora nulla invece vi ha termine,

tutto cambia soltanto, e così

il benzinaio al casello

è stato riconvertito negli anni

in un’impresa di onoranze funebri

(chiamata, è ovvio, San Marco), che vaglia

verso i palazzi della Cita

come un Caronte in cemento.

*        *       *

Coi 400.000 metri cubi

di beton del nuovo quartiere Cita

gli operai sono infine a Marghera,

anni settanta, compatti con un belvedere

sui binari della stazione di Mestre,

ma l’ala, ai giorni nostri, più rossa

del movimento sindacalista

sopravvive in isolate bandiere,

mentre cippi sparpagliati in città

ricordano ’80 e ’81, i fatti

che con il sangue compirono la guerra:

direttore e vice della Montedison

e il commissario che indagava

crivellati, fuori casa, dalle BR.

Tutto, qua, è spaccature e voragini,

e ora è difficile capire quale, ma il lavoro

a Marghera si dice tornerà: Fabio

sostiene, al bancone di un pub,

che all’Acrobyte si assuma in forze, e poi

c’è il rilancio del porto, il terminal di Fusina,

la chimica verde nel cuore residuo

che ancora batte nel Petrolchimico

(il cracking nella condotta aerea

che da Venezia sembra un ponte

magnifico): l’ecodistretto dell’energia

e del riciclo, potrebbe formarsi, con

bonifiche e riconversioni in bioraffineria –

spronano comitati ambientalisti, e spinge

la municipalità, che non resti tutto

simbolo, a Marghera,

del vuoto che non si colma mai.

Soldi, però, ci vogliono, gli schei,

e l’avallo di chi conta davvero,

in questa agra spianata che per molti

vale possibili Eldorado, eppure se solo,

guidando, ti spingessi

poco oltre via delle macchine, dov’è verde

tra porto ed Enel il canale Industriale

Ovest, sentiresti, tra gru e ponteggi,

condotti e serbatoi riflessi, bilici

schierati e ombre di silos su chiatte

e argani che prendono, immensi,

quasi per il collo le nuvole, sentiresti

la potenza che ha qui l’abbandono,

il suono calmo con cui richiama

ciascuno, le vite che a Marghera

hanno perso, e quindi anche la tua,

che adesso è come un confine,

scontornato ed eroso, sul marezzo

di quest’acqua fallita che un vecchio

con l’amo perlustra alla ricerca di cefali

e vongole: solo qui, lo senti?,

può succedere qualcosa che smentisca

la violenza di tutto, e che non sia frattura,

ferita ulteriore, anche se è questo,

in fondo, il modo

in cui si passa ad altri la vita.

*        *       *

Pescare molluschi alla diossina

non si potrebbe, ma ancora si fa,

e non si sa come resista la fauna

acquatica tra unità di evaporazione

per il caprolattame e vasche

di fosgene sfiorate dagli incendi;

ma resiste, e ora persino c’è un luogo,

a Porto Marghera, dove si mostra

in precisi compendi

la sua vocazione marittima: al Vega

da maggio c’è Aquae, il bianco padiglione

dell’Expo che Milano ha voluto

concedere alla città anadiomene.

Pochi lo sanno e ancor meno

ci vanno, dentro al palazzetto sorto

in fretta con vista sui relitti Pilkington:

ci entro, oltre la wasteland, da solo,

perché Fabio mi saluta al bar al Canton,

dove indica un cartello in 5 euro

la tariffa per un’informazione

su come si arrivi a Venezia – che è

prossima, oltre il ponte, laggiù,

ma che sembra, tra svincoli

e fucine, un miraggio davvero remoto,

com’era per Marco Polo da Ormuz.

Faccio da solo la fila e solo rimango

sempre, io diventando, poi, l’attrazione

(«ma allora un po’ di gente ci viene»:

due ragazze col pass, entrate gratis),

perché gli stand sono derelitti, disertati

i caffè, nessuno al planetario, le sedie

ovunque libere, solo un carabiniere

a corteggiare due signore

che promuovono su un biroccio

la lavanda di Venzone, mentre

il video 3D Viaggio negli abissi,

all’interno del tendone centrale,

è fermo, bloccato, sullo stesso frame

(nessun segnale),

perciò l’abisso si compie davvero:

non resta che scattare qualche foto

a memento di questa condanna

(la città-vuoto, che solo rinnega),

stigma che segna Marghera

in ogni sua singola piega.

Un progetto, in realtà, c’è anche qui,

battezzato con un anglismo Waterfront,

e alberghi, prevede, attività ricettive,

alloggi e logistica avanzata, proprio

dove glissa Porto Marghera sull’acqua

il cui prisma si sfa, con lentezza,

verso il vetro madreperlaceo di Venezia –

che ora, ecco, all’imbrunire si spalanca.

Trema il medesimo Mediterraneo

di Algeri e Marsiglia, Antalya e Beirut,

quello che bagna Gaza,

Durazzo, Tiro e Alessandria d’Egitto,

ma è basso, qua, e ha pali allacciati

che fanno dall’alto altre galassie

mentre balla la notte, in discesa,

sulle chiglie in costruzione. Almeno

una volta bisogna fermarsi, su un tratto

del ponte della Libertà, e lì farsi fare

da dondolo dai due orizzonti distanti,

le guglie di gru e pontili – i prospetti

dei campanili, Venezia a sinistra

e a destra le industrie, un ebbro mal

di mare, instabile mancamento, e poi tutto

di quest’acqua, i suoi secoli e i suoi

morti, e dentro allora, chiudendo gli occhi,

potremo noi cercare di cucire

l’aureo abbaglio e la sponda cinerea

– tutti, in fondo, li conteniamo –

e dare loro nuova febbre: il nome

Marghera è da maceria che deriva,

ed è, per ricostruire,

tutto quello che serve.

 

Francesco Targhetta

16-20 luglio 2015

 

il testo è già comparso su La Lettura #197 del Corriere della Sera, 6 settembre 2015.

 

 

 

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Archiviato in:Redazionale

Info Francesco Targhetta

"Francesco Targhetta (Treviso, 1980) insegna lettere a scuola, ha fatto un dottorato in italianistica a Padova (lavorando su Corrado Govoni, di cui ha curato la riedizione de Gli Aborti e dei Fuochi d'artifizio, e sulla poesia simbolista italiana), ha pubblicato un libro di poesie (Fiaschi, ExCogita, 2009; Le Lettere, 2020) e un romanzo in versi (Perciò veniamo bene nelle fotograe, Isbn, 2012; nuova edizione Mondadori, 2019). Nel 2014 ha vinto il premio Delfini e il premio Ciampi (da cui la plaquette Le cose sono due, Valigie Rosse, 2014). Nel 2018 è uscito il suo primo romanzo in prosa (Le vite potenziali, Mondadori) finalista al Campiello e vincitore del premio Berto"

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