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Solo Riformisti

Uno spazio aperto al confronto, civile e concreto, e un’occasione di riflessione. Per restare ancorati alla realtà, senza rinunciare agli ideali, per rifiutare le posizioni ideologiche, per riaffermare i valori democratici.

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Un riformista anomalo

Amendola ha dato il suo contributo più rilevante perché ha interpretato la formula togliattiana del partito nuovo come la netta affermazione del fatto che il Pci fosse e dovesse agire come Partito di governo. Per lui il destino delle classi lavoratrici era indissolubilmente legato a quello della nazione.

4 Giugno 2020 da Gianfranco Borghini Lascia un commento

Per giudicare Giorgio Amendola e i “riformisti” del PCI è necessario fare una premessa: il PCI di Togliatti poggiava su due capisaldi , il primo era il legame con la Rivoluzione d’ottobre e con il processo storico che essa aveva innescato su scala mondiale e, il secondo, era l’idea togliattiana del “partito nuovo” ,le cui caratteristiche  fondamentali erano di non essere un partito di classe ma interclassista, di non essere un partito di quadri ma di massa e, soprattutto, di non essere un partito di parte  ma di apparire ed agire come il “ Partito della Nazione” .

Il primo di questi due capisaldi non è mai stato messo in discussione da nessuno, né da Togliatti, nè da Amendola e neppure da Berlinguer. Tutti i dirigenti e i militanti del Pci erano convinti del fatto che la Rivoluzione d’Ottobre, spezzando l’anello debole della catena dell’imperialismo (la Russia zarista ), avesse innescato un processo di transizione dal capitalismo al socialismo su scala mondiale . Ed erano altresì convinti che, una volta che  questo processo avesse investito i paesi industrialmente più avanzati , il socialismo avrebbe assunto  in quei paesi   forme e caratteristiche ben diverse da quelle barbariche che aveva assunto nella Russia di Lenin e di Stalin. Da quel processo storico ,comunque lo si giudicasse, non ci si poteva  estraniare senza rinunciare per ciò stesso alla battaglia per il socialismo. E cosi e stato, sino alla fine! C’è voluto l’ammaina bandiera sul Cremlino perché il gruppo dirigente del Pci prendesse atto del fatto che quello che il Pci considerava un processo storico irreversibile era stato in realtà un fallimento e una immane tragedia.

Diverso è stato invece il caso del secondo caposaldo, quello del Partito della nazione. Su questo terreno Amendola ha dato il suo contributo più rilevante perché ha interpretato la formula togliattiana del partito nuovo come la netta affermazione del fatto che il Pci fosse e dovesse agire come Partito di governo. Per Amendola il destino delle classi lavoratrici era indissolubilmente legato a quello della nazione. Se non si fossero risolti i problemi di fondo del paese( la questione meridionale, il lavoro, lo sviluppo economico, la democrazia, etc..”) non ci sarebbe stato alcun futuro ne per i lavoratori ne per il paese. Le vecchie classi dirigenti avevano fallito in questo compito. Toccavo ora alle classi lavoratrici porre rimedio a quel fallimento. Ma per farlo la classe operaia doveva sapersi elevare al livello dello Stato. Doveva ,per usare la formula un poco ambigua di allora, farsi Stato. E fu proprio in virtù di questa idea alta della “missione” della classe operaia che Amendola  combatté lungo tutto l’arco della sua vita con ineguagliato rigore e forza polemica  il corporativismo, il plebeismo e la demagogia e  avversò tutte le forme di estremismo che, oscurando la complessità dei problemi da risolvere,  alimentavano  pericolose illusioni. Se necessario Amendola  non esitava a criticare apertamente le organizzazioni sindacali quando riteneva che  le loro piattaforme rivendicative non tenessero in debito conto le necessità delle imprese o quando , come nel caso della riforma delle pensioni dei primi anni 70, dell’equo canone o della scala mobile, si mostravano indifferenti agli effetti che quelle  rivendicazioni avrebbero avuto sull’economia nazionale.

Con tutto ciò  non si può dire che Amendola fosse un fautore dell’austerità, soprattutto nella versione pauperistica che ne diede Berlinguer all’epoca del governo di unità nazionale. Era piuttosto molto rigoroso quando si trattava di problemi economici perché sapeva sin troppo bene che non ci sono pasti gratis e che lo sviluppo comporta sempre fatica e sacrifici .  Non era neppure uno statalista. Non amava la Cassa del Mezzogiorno, per la cui chiusura si  batté ,e non lesinava critiche all’espansione incontrollata delle Partecipazioni  Statali che  considerava infeudate al sistema politico. La sua concezione della Programmazione democratica non aveva nulla a che vedere con il Gosplan sovietico e neppure con la metafisica dei “nuovi modelli di sviluppo”. Sapeva che  non basta un elenco di problemi, di bisogni , di aspirazioni o di desideri  ai fini di una programmazione efficace dello sviluppo. A quelli che parlavano di neo-capitalismo e della necessità di contrapporgli “ un nuovo modello di sviluppo” ”,e che ancora oggi  imperversano, Amendola opponeva il realismo di Marx il quale, in una delle tesi su Fuerbach, ricordava che “..il socialismo non è un modello astratto a cui la realtà debba conformarsi ma è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Lo  sviluppo, insomma, non si inventa ma è una faticosa conquista , frutto del lavoro e del sacrificio. Non scaturisce dalla mente di Minerva ma dai processi reali che bisogna conoscere e saper dominare.  In politica non si deve mai sognare (considerava lo slogan del 68 francese: “l’immaginazione al potere” una pura idiozia) ma  ci si deve sempre attenere ai due principi che Weber pone alla base della moralità politica : il principio di realtà ( analisi concreta della situazione concreta, come chiosò Lenin ) e l’etica della responsabilità (il politico deve sempre  rispondere delle conseguenze dei propri atti ),  A questi principi Amendola  non venne mai meno: che si trattasse dell’egualitarismo , del ripudio del , del  18 politico agli studenti universitari o dell’estremismo e del terrorismo  Amendola levò  sempre chiara e forte la propria voce. Lo fece accusando di viltà  quegli intellettuali italiani che all’indomani del rapimento di Moro dichiararono  di non stare ne con le BR ne con lo Stato, e lo fece anche con i sindacalisti di Torino i quali ,anziché difendere la direzione della Fiat per avere individuato e licenziato 61 operai collusi col terrorismo, avevano difeso i licenziati e organizzato manifestazioni contro l’azienda. A chi gridava “ la scala mobile non si tocca! “ anche quando era chiaro a tutti che ,per come era congegnata, era diventata un formidabile moltiplicatore dell’inflazione che si ritorceva contro i lavoratori , replicava con realismo “..in un mondo in cui tutto cambia non ha alcun senso dire che a non cambiare debba essere solo  la scala mobile “. Oggi queste sembrano delle ovvietà ma allora non lo erano e per queste sue prese di posizione Amendola venne aspramente criticato dai massimi dirigenti del Pci a cominciare da Berlinguer ( “Amendola non conosce l’ABC del marxismo” dichiarò in un comizio al teatro Adriano di Roma) e questo avvenne  nel colpevole silenzio di quelli che poi vennero definiti “ miglioristi”. Ma Amendola era un combattente e un formidabile incassatore e non erano certo queste critiche che potevano fermarlo. Del resto era un lupo solitario, non tollerava le correnti  e mai ne creo una. Si limitava a dire quello che pensava.

Ma il vero e più grande contributo che Amendola ha dato alla sinistra  riformista italiana  è stata la pubblicazione nel 64 della lettera che Norberto Bobbio gli aveva inviato all’indomani del colpo di palazzo con cui a Mosca avevano defenestrato Krusciov e nella quale il filosofo torinese  gli chiedeva se non ritenesse maturi i tempi per la creazione in Italia di un unico grande partito dei lavoratori. A questa domanda Amendola  rispose affermativamente. Secondo lui quello che si poteva e doveva fare era avviare da subito  un processo politico che portasse al superamento sia del Pci che del Psi per dare vita ad una   nuova formazione politica espressione unitaria del mondo del lavoro e  ,a proposito del Pci, Amendola disse( nel 64!) , qualcosa che ne Occhetto, ne D’Alema e neppure  Veltroni  ebbero il coraggio di dire nell’89.  Disse  che “ un partito come il Pci,  che in 50 di storia non aveva  raggiunto gli obbiettivi per i quali era  sorto, aveva  fallito “ e che di questo fallimento doveva prendere atto. Al tempo stesso, per attenuare il colpo, disse (ma eravamo nel 64!) che anche la socialdemocrazia aveva fallito e che solo prendendo atto di questo duplice fallimento il movimento operaio italiano poteva ritrovare la propria unità politica .Certo il nuovo partito non avrebbe più potuto chiamarsi  comunista e neppure  avrebbe dovuto organizzare la propria vita interna sulla base del centralismo democratico ma una cosa però doveva garantire ed era la possibilità  ,per  chi lo ritenesse giusto  ( e fra questi Amendola comprendeva se stesso),di    continuare a considerare la rivoluzione d’ottobre come un evento che aveva cambiato per sempre il corso della storia e aperto la via alla trasformazione socialista della società umana .

Nonostante le inevitabili ambiguità quella di Amendola fu una scelta coraggiosa perché  assestava  un colpo mortale all’idea comunista che il partito fosse un  fine in  se stesso e non un mezzo per conseguire determinati obbiettivi . Ma  fu coraggiosa  soprattutto perché  definiva con inequivocabile chiarezza   entro quale  quadro istituzionale e politico  si doveva sviluppare l’azione riformatrice del movimento operaio e questo quadro era quello  i cui confini  erano stati fissati una volta per tutte e in modo inequivocabile  dalla Costituzione :entro e non oltre quei confini!

Aprendo al cambiamento del nome e ponendo fine alla liturgia del partito Chiesa , Amendola assestava infine un duro colpo anche alla convinzione dei comunisti di essere moralmente, eticamente e, da ultimo, persino antropologicamente superiori agli altri. Una convinzione ,questa, che riaffiorerà  negli ultimi anni di vita del Pci e  che contribuirà  non poco a far fallire anche  gli ultimi tentativi di  evitare la comune rovina della sinistra.

Ma forse l’eredità più preziosa di Amendola è il suo insistente richiamo alla necessità di impegnarsi per ricomporre l’unità “ delle sparse membra del socialismo italiano “ ( come le chiamava Bobbio )e  di agire per il superamento delle scissioni e lacerazioni che ne avevano segnato la storia .

Nella sua lettera ad  Amendola Bobbio affermava che “ vi è una sola cosa che un movimento operaio in un dato momento storico e in un dato paese non dovrebbe mai fare e  che invece in Italia i vari partiti socialisti hanno sempre fatto disperdendo immense energie in crudeli lotte intestine: seguire  contemporaneamente  tutte e due le politiche, quella riformista e quella rivoluzionaria ….Fare politica e per di più  politica di governo in uno Stato retto da una costituzione di democrazia liberale (  e non di democrazia popolare )vuol dire fare una politica social-democratica.. non c’è alternativa a questo”.. e concludeva il suo ragionamento con una frase di rara onestà intellettuale e generosità   politica : “Oggi l’Italia è matura per un grande partito unico del movimento operaio . Noi ( intendendo con noi i socialisti e i liberali) abbiamo bisogno della vostra forza . Ma voi(comunisti) non potete fare a meno dei nostri principi”. Veniva in tal modo enunciata per la prima volta l’idea dell’Unità Socialista  che Bobbio perorò sino alla sua morte e che Bettino Craxi ripropose inascoltato all’indomani della caduta del muro di Berlino. Nel primo  e nel secondo caso  a lasciare cadere la proposta  è stato, con la sola eccezione di Amendola, il gruppo dirigente del  Pci ,colpa , questa ,inemendabile e causa non ultima  della sua rovina.

Quali insegnamenti possiamo trarre da questa vicenda, soprattutto noi ex comunisti?  Come ha amaramente riconosciuto lo storico militante socialista anglo ebreo americano Tony  Judt “..dobbiamo riconoscere che nulla di ciò che davvero ha contato e conta per la sinistra, dall’eguaglianza allo stato sociale, deriva dal comunismo. Il socialismo realizzato non ha contribuito in nulla al benessere dell’Umanità . Nulla !” Personalmente la penso come Judt e ritengo anch’io  che l’esperienza del comunismo possa essere rivisitata solo criticamente  perché ,  come dice ancora Tony Judt  “ non è possibile fare del bene nel nuovo mondo se non si dice la verità sul vecchio”  Ed è proprio questo quello che gli eredi dal Pci, Occhetto, D’Alema , Veltroni ma anche Napolitano, non hanno saputo o voluto fare. Non hanno operato la necessaria rottura con il passato e, soprattutto non hanno elaborato il lutto. Sono semplicemente transitati , dal comunismo al post comunismo  con la stessa facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua ed è  anche da qui, da questa insostenibile leggerezza, che origina la grande voragine che si è aperta a sinistra e che solo una forza davvero socialista e liberale potrebbe riempire.  Non sono stati all’altezza . Al loro confronto Amendola , Bobbio e Craxi erano davvero  dei giganti! La caduta del muro di Berlino ,eliminando l’ultimo vero ostacolo ,aveva spianato loro  la via alla riunificazioni su basi riformiste del socialismo Italiano. Ma quella  occasione non è stata colta. Purtroppo per l’Italia in quel momento non  c’erano più  giganti sulle cui spalle salire ! Erano restati  soltanto i nani.

 

 

 

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Info Gianfranco Borghini

nato a Brescia nel 1943. Iscritto al Pci dal 63. Nel 67 entra a far parte della segreteria nazionale della FGCI di cui diventa segretario nazionale dal 69 al 72. Successsivamente diventa responsabile del lavoro nella direzione del Pci e nel 75 viene nominato Segretario Regionale della Lombardia .Nel 79 viene nominato responsabile della commissione Industria Energia e Partecipazioni Statali della direzione del Pci di cui entra a far parte. Dall'84 al 92 è deputato per la cirscoscrizione di Brescia e Bergamo. Condivide le battaglie della componente riformista del Pci, detta "migliorista". Nel 92 viene chiamato da Giuliano Amayto a presiedere il Comitato nazionale per l'occupazione presso la Presidenza del Consiglio, carica che ricoprirà sino al 2006. Nel 93 , a seguito della decisione di Occhetto e D'Alema di ritirare ii ministri del Pds appena nominati dal governo si dimette dal Partito

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